
Mare, montagna e collina, questo è il Veneto. Diverso il territorio, diverse le cucine, anche se tutte influenzate dalla Serenissima. Oggi parliamo di salse, descritte da Auguste Escoffier, cuoco francese, come “l’unico vero segreto che il cuoco deve custodire”. Nate per esaltare il sapore dei cibi accompagnano carne, pesce, verdure e pasta e sono lo specchio di gusti, usanze, prodotti e quindi dell’identità gastronomica e culturale del territorio. Ma conosciamole meglio queste antiche salse venete, molto semplici, senza grandi ingredienti, ma gustosissime.

Nelle zone di montagna era il burro il re di salse e sughi. Per ottenerlo bastava “spanar” il latte freddo e “sbattarlo”, fino a quando la panna non si tramutava in burro. Dal 1500, a Venezia, i venditori di “onto sottil” detti butirranti, dovevano sottostare a continui controlli, si voleva evitare che il burro fosse “rifatto” e che fosse prodotto fuori della Serenissima, presso “esteri stati”. Il bellunese poi, nei primi anni del 900, avrebbe dato i natali alle prime latterie sociali dove il burro veniva prodotto in stampi caratteristici con tanto di sigillo. Il prezioso derivato del latte era l’ingrediente fondamentale della salsa di erba brusca o erba cucca, oppure pan e vin. Il suo gusto acidulo si sposava bene con la carne bollita, il piatto dei giorni di festa. Ma era anche utilizzato come il “tocio” dove intingere la polenta, prendendo il nome di sugo di zigar.
In campagna “de drìo la casa” si allevava il maiale, che era considerato il salvadanaio che trasformava in ricchezza gli avanzi della famiglia, “’L mas-cio l’era la musìna de ‘na faméia”. L’animale, per la preparazione di salse e sughi, donava strutto e lardo. Lo strutto, in dialetto “colà o onto”, era il grasso della frittura. Con il lardo, condimento e companatico, si preparava una salsa da servire calda sul pane. Al lardo pestato si aggiungevano aglio, aceto, zucchero, prezzemolo oppure sedano.
Nella città di Romeo e Giulietta, Verona, la regina delle salse era la pearà, in italiano pepata. Creata dal cuoco di corte di Alboino, re dei Longobardi, per “sollevare” la regina Rosmunda che, dopo essere stata obbligata a bere dal cranio del padre Cunimondo, trasformato in coppa, aveva deciso di lasciarsi morire di fame. Macabro racconto a parte era una salsa fatta di midollo di bue, pangrattato, burro, brodo e abbondantissimo pepe nero. La cottura era lunga, circa un’ora, in un tegame in terracotta. Servita caldissima accompagnava bollito, pollame e cacciagione ed era la salsa di tutti, poveri e ricchi, cambiava solo il vasellame che la conteneva, nelle case dei più abbienti erano le salsiere d’argento. Sempre a Verona, nel mese di settembre del 489 d.C., nasceva la pastissada de caval, una salsa robusta, uno stracotto a base di carne di cavallo da servire con la polenta. La sanguinosa battaglia tra gli eserciti di Odoacre e Teodorico aveva lasciato sul campo soldati, ma anche cavalli. E così, i veronesi affamati, avevano messo in pentola i cavalli. Dopo aver macerato la loro carne nel vino rosso della Valpolicella l’avevano fatta cuocere lungamente profumandola con alloro, noce moscata e chiodi di garofano.
Le salse contadine utilizzavano soprattutto i prodotti dell’orto e del bosco. Con i bruscandoli, i germogli del luppolo selvatico, aglio, brodo di verdura e farina di granoturco bianco si faceva una salsa densa per condire la pasta. La radice di cren, detta anche di rafano o di barbaforte, scortecciata e grattugiata unita ad aceto, olio e pangrattato diveniva una salsa piccante capace di nobilitare la scialba carne bollita.
Nelle case di collina e di pianura, in primavera e in autunno, arrivavano i funghi pioppini raccolti nelle fessure degli alberi di pioppo, olmo, salice e sambuco. Uniti alle uova sode, ai pinoli e ad aglio e burro, profumati con qualche fogliolina di dragoncello, divenivano la tanto amata salsa preziosa.

In montagna le mele divenivano salsa. Ridotte in dadolata, profumate dalle bacche di ginepro, cuocevano con un fil di fuoco fino a trasformarsi in una crema da servire calda o fredda spolverizzata di pepe nero. Salsa divenivano anche i cetrioli e la cipolla, nel paese di Zero Branco, in provincia di Treviso, invece, lo divenivano i peperoni dolci, solitamente accompagnati da acciughe, aglio, olio e burro. Ma anche il radicchio, altra specialità del trevigiano, unito a cipolla, burro, vino rosso e aceto.

Del Veneto si dice “intriso d’olio”, perché la regione ne è una grande produttrice. Solo due delle sue province, Rovigo e Belluno, per ragioni climatiche non lo sono. Le prime tracce scritte che attestano la presenza dell’olivo nella regione di trovano nel De L’agricoltura, dello scrittore romano Columella. Con l’olio extravergine di oliva dei Colli Berici, nella città del Santo, Padova, si preparava la salsa verde. Comparsa per la prima volta nel manoscritto in lingua veneta, Libro di cucina del secolo XIV, prevedeva l’impiego di prezzemolo, sardella salata, pane grattugiato, aglio, aceto, succo di limone, ed era l’accompagnamento del bollito. Per Venezia, il “grande guaritore” di Omero era una preziosa merce di scambio. La Serenissima lo importava dalla Puglia, dall’Istria e anche dalle isole greche e aveva affidato ai Visdomini della Ternaria il censimento degli olivi, l’incremento della produzione olearia, il controllo della qualità del prodotto e l’assegnazione del prezzo che variava di mese in mese. Con l’olio, il condimento dei ricchi durante la Quaresima, si faceva la salsa borghese, ad essa si aggiungevano acciughe, aglio, aceto, prezzemolo e biscotti secchi. Altra tipica salsa veneziana era il saòr. Cipolla bianca, uvetta, aceto e zucchero per una marinata nata per conservare le sarde e che oggi è il piatto da mangiare in barca, la notte del terzo sabato di luglio, Festa del Redentore.
Nelle case contadine le donne usavano dire: <<la salsa l’è on condimento da siori>>. Ed era proprio così quando i piatti erano arricchiti dalle preziose spezie. Cannella, noce moscata, macis, chiodi di garofano, pepe, zafferano, zenzero erano “il lusso” dei ricchi veneziani che le acquistavano nelle spezierie. Con il passare del tempo il loro prezzo era poi diminuito ed erano entrate in tutte le cucine della regione e ancora oggi se ne fa grande uso.
Voglio chiudere con quanto scritto da Giovanni Vialardi, cuoco di casa Savoia, nel 1854, nel suo Trattato di cucina. “Le buone salse sono la base principale dei condimenti. Dice il proverbio: costa più la salsa che il pesce; poiché una salsa ben fatta, ben disgrassata, ben cotta, d’un eccellente odore, e d’uno squisito gusto, accomoda una pietanza benché meschina, ma una salsa negligentata, mal fatta, piena di untume, rende la pietanza detestabile e nauseante, benché cara e preziosa”.
Lascia un commento