
Era il 1944 e in una Roma buia, affamata e spaventata dalla guerra, nasceva la Pasta alla Carbonara. Oggi sembra incredibile che, in quegli anni di fame, sia nato un piatto così ricco, saporito e opulento, ma è così.
Pare che questo piatto, ancora oggi molto amato, sia nato per caso dalla fantasia degli osti romani, che, per accontentare le richieste del militari americani, che a pranzo ordinavano pancetta, uova e noodles gli spaghetti cinesi, in sostituzione, non avendoli, gli servivano, in uno stesso piatto, guanciale, uova fritte e spaghetti italiani.
Gli americani mescolavano, mescolavano, creando una “specie di carbonara”.
Ma vediamo cosa si mangiava a Roma in quegli anni, poco prima e poco dopo, la nascita della Pasta alla Carbonara.
Abbiamo detto che in quel periodo l’Italia era in guerra, una guerra che doveva durare pochi mesi e invece durò cinque lunghi anni e, come si usa dire, furono anni durante i quali era molto difficile mettere insieme il pranzo con la cena.



Petronilla, al secolo Amalia Moretti Foggia, dalle pagine della Domenica del Corriere, e dai microfoni dell’Ente Radiofonico consigliava alle massaie ricette per cucinare piatti semplici con i pochi ingredienti che si riuscivano a trovare.

Miriam Maffai, molti anni dopo, a guerra finita, nel suo libro “Pane Nero” racconterà la fame di Roma e i cento grammi di pane fatto di segale, ceci e segatura.

Si facevano lunghe file per acquistare broccoli, cipolle e zucche, tutto era sempre insufficiente, le tessere annonarie permettevano di acquistare misere quantità. Era nato allora il Mercato Nero o meglio la “Borza nera”, come si chiamava a Roma, e per qualcosa da mangiare si arrivava a rischiare di essere uccisi.
L’illustratore Gino Boccasile, su di un manifesto dell’epoca scriveva: “La donna italiana colle sue rinunce e con i suoi sacrifici, marcia insieme ai combattenti”. Ed era proprio così.
Le donne avevano, ogni giorno, un unico grande pensiero che non le abbandonava mai, cosa preparare da mangiare alla loro famiglia.

Gli ortaggi venivano utilizzati dalle radici alle foglie. Le radici degli spinaci e due centimetri dei loro gambi venivano cotte in padella con un po’ di olio, aglio e cipolla e venivano servite come contorno.
Le bucce delle rape, delle fave, e dei piselli finivano la loro vita nelle minestre. Grande uso si faceva delle patate che costavano poco e si trovavano facilmente, oltre che come purè venivano utilizzate nelle polpette e negli sformati. Le loro bucce crude venivano tagliate a listarelle sottili e venivano cotte insieme alle altre verdure, le bucce cotte invece venivano fritte dopo essere state tagliate come fossero capellini e avvolte a nido.

Gli avanzi del pane erano cosa preziosa, accompagnavano le zuppe ma erano anche i “biscotti” della prima colazione. Le briciole sulla tovaglia venivano raccolte per diventare pane grattugiato.
In casa si faceva anche un particolare formaggio. Si univano duecento grammi di latte e un chilogrammo di purè di patate, si mescolava il tutto e il composto ottenuto si faceva riposare per quattro giorni. Poi si lavorava nuovamente e si metteva a stagionare in un cestino per due mesi. Non ho trovato notizie circa il suo sapore…
Si utilizzavano anche le ossa del coniglio e del pollo che restavano nei piatti per farne dei brodi. Venivano cotte nuovamente con acqua, carota, cipolla, sedano, pomodoro e qualche chiodo di garofano unendo anche le croste di formaggio avanzate.
Il grasso degli arrosti veniva raccolto e conservato in barattoli di vetro e utilizzato come condimento per altre preparazioni. Il grasso crudo di scarto delle carni veniva fuso, raccolto in panetti e utilizzato come burro.

Lo zucchero era merce preziosa, quindi al suo posto spesso si utilizzavano le carrube il cibo dei cavalli, perché molto dolci. Venivano fatte macerare in acqua per una settimana, si aggiungeva poi del latte crudo e ancora acqua. Il composto ottenuto si faceva bollire per cinque minuti, poi lo si passava al setaccio ed era pronto per essere conservato.
Il sale era scomparso con l’arrivo della guerra sul territorio italiano. Impossibile farlo partire dalle saline di Puglia, Sardegna, Sicilia e Romagna. Inizialmente le donne romane andavano sul litorale, a Ostia, Torvaianica e Anzio, tornando con il loro carico di acqua di mare, che facevano evaporare al sole in tinozze, sulle terrazze di casa. Poi, forse stremate, avevano cominciato ad acquistare a caro prezzo da alcuni “grossisti specializzati”, l’acqua di mare utilizzandola direttamente per cuocere la pasta. Pare che il gusto della pasta fosse amarognolo.
Mancava anche il tabacco e quindi niente sigari e sigarette, i romani era stati costretti a “levarse er vizio”.
Nelle campagne romane si andava a cicoria, ma anche a papaveri, non per i semi dei fiori, ma per la pianta, si mangiava veramente ogni erba.

Ovunque fiorivano orti, anche sui balconi e sui davanzali delle finestre.
I convogli dei viveri diretti a Roma venivano mitragliati. La città era allo stremo, sempre sul punto di capitolare. In uno dei momenti più bui, un diplomatico inglese distaccato presso la Città del Vaticano, aveva scritto al suo Governo chiedendo pietà per la città.

La secca risposta di Churchill era stata: << Roma deve patire la fame fino a quando non sarà liberata>>.
Allora le parrocchie, le sagrestie, i collegi di suore e di preti e perfino i conventi di clausura avevano acceso i loro fornelli a carbone, socchiuso i grandi portoni distribuendo ad una moltitudine grata ed affamata grandi tazze di alluminio colme di calde e buone minestre. Minestre rossicce per la conserva di pomodoro, con pochi canolicchi, qualche fagiolo, tante patate e gli immancabili broccoli romani.

I camion della Città del Vaticano, con i loro tetti bianchi e gialli come segno di riconoscimento, per fermare i colpi della mitraglieria, avevano cominciato a correre per la città, distribuendo farina e quanto arrivava nel circuito ecclesiastico.
Ma Roma aveva fame, tanta fame, neppure i gatti, “i gatti de Roma ce staveno più…”

Mancava anche l’acqua, la gente si metteva in fila davanti alle fontanelle stradali dell’Acqua Marcia che zampillavano solo per poche ore al giorno. Il gas inizialmente arrivava ad intermittenza poi con il passare del tempo era sparito del tutto e così piano piano erano scomparsi gli alberi dai viali, le panchine dai giardini pubblici, le staccionate da Villa Borghese.
L’importazione del caffè era stata bloccata nel 1935 quando l’Assemblea della Società delle Nazioni a Ginevra aveva stabilito delle sanzioni economiche contro l’Italia che aveva iniziato una campagna per la conquista dell’Abissinia. Pur di bere un caffè si tostava di tutto: ceci, cicerchie, i vinaccioli dell’uva e i chicchi di grano e forse, perché erano bevande imbevibili, la gente le chiamava caffù .
I pochi “ricchi” rimasti potevano acquistare, a un prezzo esorbitante, in una latteria di via dei Pastini, un vero caffellatte in bottiglia.

Se, come sostengono i napoletani, il caffè deve essere nero come la notte, ardente come l’inferno, dolce come l’amore sarebbero dovuti passare molti anni prima che ai romani fosse concesso di poter gustare nuovamente un buon caffè.

Anche quello portato dagli americani era “cattivo”perché poco tostato.
Livio Apolloni in “Cronache d’altri tempi” sostiene che “un popolo appecoronato da orge di ceci abbrustoliti, di cicoria, di miscele misteriose con schizzi di anice ed effluvi di decotti di more ed empiastri di liquerizia, non può sostenere a lungo un conflitto. Gli italiani si erano trasformati in leoni, quando erano finalmente arrivati gli americani e forti odori di caffè in polvere si sprigionavano dalle scatole di latta. Gli alleati erano vestiti color caffè e latte e alcuni avevano perfino la pelle color caffè abbrustolito. Come per magia la gente si era risvegliata, eccitatissima, con la caffeina nel sangue e nel cervello”.

I “liberatori” erano arrivati a Roma il 3 giugno del 1944, e per tre soli giorni i romani avevano mangiato pane bianco. Per Luigi Ceccarelli era” il pane degli alleati, splendente, bianco, soffice come l’ovatta, ma che non sa di niente”. Trascorsi tre giorni, terminata forse la farina, i romani erano tornati al pane nero tesserato.
Gli americani avevano portato in Italia i chewing gum, le sigarette, la cioccolata, tanta polvere di uovo e di latte, carote liofilizzate, montagne di scatolette meat and vegetable. Stranissimi fagioli neri disidratati e liofilizzati che dovevano rimanere almeno un giorno e una notte in ammollo nell’acqua e bicarbonato prima di essere cucinati e poi la margarina, gialla, salata.
I romani, guardandoli passare vittoriosi e allegri sui loro carri armati avevano pensato che la guerra era finita e con lei la fame, ma purtroppo, non sarebbe stato proprio così…

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