Oggi 11 febbraio 2016, il Calendario del Cibo Italiano festeggia con Cristina Simonelli come Ambasciatrice, tutti i dolci tipici del Carnevale: chiacchere, frappe, cenci e castagnole.
Volendo unirmi anch’io ai festeggiamenti per l’occasione ho iniziato delle ricerche e, meraviglia delle meraviglie, ho scoperto il Carnevale Romano, un evento di lunga tradizione a me completamente sconosciuto, un lungo viaggio nei secoli, colorato e folle.
Marcello Veneziani, nella prefazione del libro “Carnevale Romano. Rinascita di una tradizione”, ne ha colto l’essenza <<un’antica festa gioiosa e un po’ crudele, crocevia tra sacro e profano, tra pagano e cristiano, tra antico e moderno, tra nobile e plebeo, in cui l’uno sconfina nell’altro e uno si fa beffe dell’altro. Una festa che coglie tutto l’humus popolare, l’indole ironica e comica, il forte senso della caricatura e del grottesco dei romani>>.
Ma cominciamo da quello che forse è l’inizio, il Carnevale Romano nasce probabilmente con i Saturnali celebrati nell’antica Roma intorno al solstizio d’inverno dal 17 al 23 dicembre.
La festa aveva inizio con un rito sacrificale nel tempio dedicato al dio Saturno, dio dell’età dell’oro, quando gli uomini vivevano in abbondanza e in uguaglianza, e si concludeva con un banchetto pubblico alla fine del quale i convenuti si salutavano con le parole augurali: Io, Saturnalia.
I Saturnali erano “un mondo alla rovescia”, gli schiavi non dovevano assolvere i loro compiti, ogni attività lavorativa era sospesa, tutte le gerarchie sociali e familiari sparivano. Era usanza scambiarsi delle candele accese e dei doni: noci, datteri, dolci a base di uova e farina ricoperti di miele detti Frictilia, perché fritti nel grasso di maiale, molto simili alle chiacchere.
E’ proprio durante i Saturnali che compaiono le prime maschere al riparo delle quali, i romani, gozzovigliavano e si abbandonavano a comportamenti non sempre leciti.
Nel Medioevo il Carnevale a Roma si festeggiava solo il giovedì grasso e la domenica, poi, papa Martino V, ricordato più per l’appetito che per il suo impegno pastorale, amante, tanto da morirne per una indigestione, della Vernaccia e delle anguille del lago di Bolsena, pesce allora considerato peccaminoso, istituì un altro giorno dedicato alla caccia dei tori a Testaccio e in Agone.
Tutti erano chiamati a contribuire ai festeggiamenti, in un manoscritto del XIV secolo è riportato che i caporioni nominati dal Senato, in occasione del Palio di Testaccio, avevano visitato i vari rioni accompagnati da un toro, raccogliendo le offerte di cibo per l’evento.
Al Carnevale Romano partecipavano tutti ma il personaggio più importante era il popolo che per qualche giorno dimenticava i patimenti della vita quotidiana e si divertiva in maniera sfrenata.
“Ecco febbraro in maschera
Andar conviene al corso
Il portamento fingere,
Il sesso ed il discorso….”
Solo alle prostitute era vietato mascherarsi, forse per lasciare alla folla il divertimento di cercarle e di additarle perché venissero punite. Pare che durante il Carnevale del 1638, la famosa prostituta Cecca Buffona, trovata mascherata, fosse stata sottoposta alla pena prevista per questo “reato”, la pena della corda, una serie di frustate sulla pubblica via Lata. Alla poveretta a nulla era servito l’essere nelle grazie del Cardinale Antonio Barberini.
Chi non poteva permettersi un vero abito utilizzava la carta, o, come nei Saturnali, fiori, frutti, foglie e rami intrecciati. Le strade e le piazze di Roma si coloravano di gente allegra, cortei mascherati, sfilate di carri. Attori improvvisati, giullari, cantastorie e saltimbanchi intrattenevano i passanti. Si brindava mille e mille volte alla morte ubriaca nella speranza che perdesse la lucidità e non riuscisse più a compiere il suo macabro compito.
A Testaccio invece si organizzava la “Ruzzica de li porci”. Dalla sommità della collina venivano lanciati carretti carichi di maiali vivi, il popolo sotto, all’arrivo, si contendeva quel che restava dei maiali.
Filippo Clementi nel suo libro “Carnevale Romano” racconta di come, nel 1550, la Fontana di Nagoni fosse scomparsa sotto una piramide di prosciutti e di ciambelle, con al vertice un intero porco arrostito e di come in mezzo alla piazza fosse stata eretta una colonna di sei botti di vino che il popolo aveva subito bevuto. Tutto era andato subito a ruba tra la gazzarra della folla e così Giacomo Cesi si era visto costretto a far cacciare, nella stessa giornata, nella piazza, quattro tori e una bufola.
Il suo massimo splendore il Carnevale Romano lo aveva raggiunto durante il Rinascimento quando sul Soglio di Pietro era salito il veneziano Paolo II (1464-1471).
I cronisti dell’epoca definivano i suoi conviti “splendidissimi”. Le tavole venivano imbandite nei giardini accanto alla basilica di San Marco, il popolo assisteva chiassoso e divertito in attesa che gli venissero gettati gli avanzi.
Il 13 febbraio 1466 era stata organizzata una festa di Carnevale con 1000 invitati. Il Maestro Martino, cuoco raffinato, instancabile viaggiatore e profondo conoscitore della cucina europea, autore del “Libro de Arte Coquinaria”, aveva preparato un menù utilizzando: 30 litri di latte, 8571 uova, 3112 libbre di formaggio parmigiano, 514 libbre di pecorino, 242 coppie di provature, 200 libbre di burro, un menù completamente a base di latte, ma era venerdì e bisognava mangiare di magro…
In ogni banchetto venivano servite le portate di parata, già in auge nel Medioevo. Erano delle enormi costruzioni gastronomiche, spaventose potremmo dire oggi, cucinate e montate solo per stupire.
Era molto di moda cucinare una scrofa, rivestirla della sua pelle e circondarla dei suoi piccoli nell’atto di allattarli, o anche un pavone rivestito delle piume e della bellissima ruota, con una inquietante fiamma accesa nel becco.
Nel XVIII secolo era arrivata l’esotica cioccolata, la bevanda alla moda, servita alle feste accompagnata dai pasticcini. Al popolo in strada, in attesa, si distribuiva del vino, il più delle volte rovesciandolo dalle finestre tra le risate e il divertimento dei signori.
Ma l’evento più importante e più atteso da tutti, poveri e ricchi, nobili e plebei era la corsa dei cavalli barberi, che correvano senza fantino sollecitati dalla pece bollente. Una corsa tumultuosa e cruenta, lungo la via Lata, oggi via del Corso, fino a piazza Venezia, abolita nel 1883 a causa di un incidente mortale. I cavalli erano di proprietà di nobili e prelati che facevano un tifo sfrenato, seduti su tribune allestite per l’occasione, il popolo invece, si sistemava su un alto gradino che correva per tutta la via e che ora non c’è più.
Le corse erano a quel tempo una sorta di divertimento ossessivo, si facevano correre nudi gli ebrei, i vecchi, i giovani, gli zoppi, i deformi, i nani, i gobbi e per un periodo anche le donne.
I giochi all’aperto si concludevano sempre con i fuochi d’artificio, la popolazione vi assisteva dalle osterie dove si serviva la tonnina con la cipolla, accompagnata dal vino dei Castelli.
Il Carnevale Romano godeva di fama internazionale, ogni anno arrivavano nella città eterna per festeggiarlo sovrani, aristocratici, artisti e letterati da tutta Europa. Il giornale romano del tempo, Cracas, aveva scritto che per il Carnevale del 1784, durante una cena offerta dall’Ambasciatore di Venezia al Re Gustavo Adolfo di Svezia e l’Arciduchessa Annamaria d’Austria, per non cambiare i 124 piatti, i commensali erano stati invitati ad accomodarsi in un’altra stanza dove era stata apparecchiata un’altra tavola, gli ospiti erano rimasti incantati per il vasellame d’oro e gli splendidi pezzi di antiquariato.
Pranzi sontuosi venivano offerti anche sulla terrazza del Campidoglio, rimasta famosa una trota del lago di Garda del peso di 26 libbre servita in un pranzo offerto da Don Abbondio Rezzonico, nipote di papa Clemente XIII.
Grande protagonista del Carnevale era il teatro, nei ridotti si svolgevano feste “alla guardarobba”, in cui si servivano solo piatti freddi e dolci.
Durante la Rivoluzione Francese, nel 1798, mentre si festeggiava, anche se in tono minore il Carnevale era giunta a Roma l’armata francese, e papa Pio VI, prima di essere deposto e fatto prigioniero, aveva cercato di rabbonire Giuseppe Bonaparte inviandogli in dono 40 bottiglie di vino, 1 vitella mongana e 1 storione.
All’inizio del 1800 il Carnevale era cambiato arricchendosi di una nuova usanza nata per scherzo. Si racconta che nel 1802, in occasione di una festa in casa del conte Bolognetti era stato chiesto agli ospiti di portare una preparazione gastronomica. La cosa aveva avuto un grande successo, ed era stata subito replicata e copiata. I nobili poi, avevano cominciato ad uscire dai loro palazzi per andare a mangiare in trattoria, il principe don Agostino Chigi, nel suo Diario, descrive una cena di Carnevale con 21 commensali, costata 1 scudo e 65 bajocchi a testa, comprese le donne alla trattoria dell’Armellino all’Arco di Carbognano.
La festa dei Moccoletti al grido:
Mor’ammazato chi non porta er mòccolo
la sera di martedì grasso, sulla via Lata, chiudeva il Carnevale. Il gioco era questo, spegnere la candeletta degli altri e mantenere accesa la propria.
Mentre su Roma scendevano le prime ombre della sera, in un’atmosfera sospesa, quasi incantata, migliaia di luci si accendevano ed iniziava la festa.
Poi al mattino, alle prime luci dell’alba, terminata l’ultima notte di baldoria, i romani entravano nelle Chiese, e in ginocchio, a capo chino, contriti e pentiti ricevevano le Ceneri.
Splendido reportage. Che usanze orribili. Che dire dei nobili e della chiesa? Se potessero farebbero tuttora queste terribili cose. Non tutti beninteso!
Grazie Solema ! Anni cupi quelli …
Ciao!
Complimenti, articolo molto bello ed elaborato.
Buona serata 🙂
Grazie Camilla ! Buona serata anche a te.
Molto interessante il tuo contributo! Un po’ inquietante il carnevale romano!!
Grazie Cristina. Quando ho iniziato la mia ricerca pensavo ad un qualcosa di gioioso e invece…