
Siamo a Roma è il mese di ottobre del 1876, la città è da cinque anni la capitale del Regno d’Italia. Adolfo Giaquinto poeta, cuoco di grandi famiglie patrizie romane, zio paterno di Ada Boni e inventore dell’estratto di carne Excelsior, decide di andare a pranzo all’osteria delle Belle Arti. Prima una lunga passeggiata per le vie della città che lentamente sta cambiando volto, anche culturalmente. Nel mese di aprile è stata aperta al pubblico la Biblioteca Nazionale, la più grande biblioteca d’Italia, che diverrà il fulcro della cultura del Paese. Adolfo non lo sa ancora, ma dopo qualche anno sarebbe divenuto un autorevole giornalista gastronomico, avrebbe scritto libri e gli sarebbe stata affidata la direzione della rivista gastronomica “Il Messaggero della cucina”. All’osteria delle Belle Arti la cucina è affidata a Francesco Mastriani, originario di Arpino, piccolo paese della Ciociaria. Ed è proprio lui che accoglie Giaquinto recitando la sua proposta gastronomica in cispatano, un dialetto che non è altro che un miscuglio di abruzzese, marchigiano e napoletano, condito con un pizzico di romanesco.
Si lei, signore, dichi cosa vole
Abbiame cappelline e cappellette,
pastine in bròte, baccalà ‘guazzette,
e ùmmete de marze cuffaciòle.
Vulete pescie ‘n ùmmete, sceriòle?
Te facce ‘n bel piattine de spaette?
Pummatòre arrepiene nu l’ho dette
ca c’è remaste un pummatore sole,
Vulisse spezzatine de vitelle?
Cutalett’ appannate, marz’all’osse,
frittate cò bresciutt’alle padelle?
Rignone? È tremmenate stammatine,
t’arròste ‘na bestecca bella grosse?
Parecchie a lu signore, Sarrafine!
Adolfo ascolta tra il divertito e il costernato il menù che, una volta a casa, decide di trascrivere in poesia. Menù nel quale, a ben guardare, nessun dolce ha trovato posto. Impossibile non notare, senza scomodare Bembo o Manzoni che la lingua, come anche il cibo, restano elementi distintivi incapaci di unificare. A conferma di tutto ciò, queste le parole di Massimo d’Azeglio: “Purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani”.
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