
Una scoperta è una visita in Irpinia. Lontana dalle consuete mete turistiche campane si mostra all’ignaro viaggiatore, in tutta la sua quieta bellezza. Borghi e castelli, abbazie e chiese, fonti d’acqua limpida e freschissima e un paesaggio quasi incontaminato, questo è quello che nasconde e che pochi conoscono.
La abitano gli Irpini, gente fiera, lontani discendenti del popolo nomade della tribù sannitica, che si oppose alla dominazione romana. Terra di vocazione vinicola già decantata da Plinio, Columella e Strabone. Terreni argillosi e calcarei, ricchi di minerali, che cullano viti centenarie che donano rossi generosi e bianchi finissimi.
Questo è il luogo dove idealmente voglio portarvi, nella piccola Salza Irpina, dove, attenti alla tradizione, ma pronti ad anticipare il futuro i fratelli Di Meo producono i loro vini. Imprenditori sì, ma non solo, anche messaggeri di cultura e custodi di bellezza.
Roberto, l’enologo, è colui che “mette” nel vino anche quell’ingrediente magico e segreto, fatto di un po’ di sapori d’infanzia e famiglia. Vi invito leggere come mi ha raccontato il “suo” mondo del vino.
Vuole presentare la vostra Azienda?
All’inizio degli anni ’80, con i miei fratelli Erminia e Generoso, abbiamo rilevato una storica azienda agricola di famiglia, situata a pochi chilometri da Avellino e circondata dai Monti Picentini e dal Partenio. La proprietà, in passato appartenuta ai Principi Caracciolo, si estende per circa 25 ettari, in gran parte vitati, sui quali domina un caratteristico Casino di Caccia del ‘700, oggi trasformato in una lussuosa residenza di campagna, sede di eventi aziendali e privati. Il nostro obiettivo è stato da subito quello di produrre vini a partire dalle varietà autoctone più diffuse in Irpinia, come il Fiano, il Greco, l’Aglianico e la Falanghina, e di valorizzare il patrimonio di tradizioni culturali e territoriali di cui siamo ereditari. La produzione vitivinicola conta oggi 15 etichette, suddivise in tre linee di prodotti: la Linea Tradizione, la Linea Tempo ed i Vini d’Arte. La prima è una linea classica, di cui fanno parte i vini monovitigno simbolo dell’Irpinia; la Linea Tempo, invece, comprende le riserve, una sfida aperta e continua alle potenzialità di affinamento del Fiano principalmente, e delle altre varietà autoctone che hanno reso famoso questo territorio in tutto il mondo. I Vini d’Arte, infine, sono il Taurasi Riserva Hamilton ed il Taurasi Riserva Vino Blu, due vini che raccontano una specifica storia di Arte e di Cultura in Campania, di cui si fanno ambasciatori nel mondo. Altrettanto cospicua è la produzione di liquori e di distillati della tradizione di famiglia: nella gamma c’è il “Ratafià di Nonna Erminia” a base di foglie, erbe e Aglianico, lo “Schiaccianoci”, con Aglianico e infuso di noci, il Brandy Don Vittorio, con più di 25 anni di invecchiamento, e delle profumatissime grappe monovitigno.

Quante bottiglie producete ogni anno?
350.000/400.000 circa.

Quante persone lavorano nella vostra Azienda?
10 persone. In alcuni periodi, inoltre, ci avvaliamo anche di collaboratori stagionali.

Il vino è spesso dell’enologo e non si riesce a riconoscere la personalità del produttore. Nel suo caso lei è produttore ed enologo, cosa vuole trasmettere a chi beve i suoi vini?
Autenticità, essenzialità e suggestione.

Una grande regione si racconta anche attraverso i vini che produce, cosa raccontano i vostri vini della Campania?
Raccontano innanzitutto le peculiarità delle specifiche micro zone irpine dalle quali provengono, ma anche la straordinaria capacità di affinamento di vitigni quali il Fiano o il Greco, da sempre consumati “giovani”. Infine, come dicevo poc’anzi nel caso dei Vini d’Arte, si fanno ambasciatori anche del grande legame che passa fra l’Arte e il Vino in questa regione.

E’ più importante la vigna o la cantina per i vostri vini?
Non darei un ordine di importanza. Per il mio modo di produrre vino sono egualmente importanti e fondamentali: due fasi distinte di uno stesso processo. Per entrambe sono necessari un progetto preciso ed un’attenzione costante e direi quasi maniacale per ottenere certi risultati.

Tradizione o innovazione, cosa seguite di più?
La tradizione è un punto di partenza imprescindibile: è il frutto del processo di prove ed errori per conoscere e per dominare la natura, e per questo va assolutamente tenuta in considerazione. L’innovazione, invece, rappresenta la legittima evoluzione dei nostri tempi.
Nel mondo enologico, e gastronomico in generale, paradossalmente oggi quasi si teme di ammettere l’alta tecnologia o l’innovazione nel processo produttivo, come se i due mondi non fossero affatto compatibili. Produrre secondo la tradizione è quasi diventato sinonimo di alta qualità, cosa che invece non può assolutamente essere concepibile in altri settori produttivi. Io, invece, mi sento molto attratto dai progressi tecnologici e scientifici che si compiono nel campo enologico e ritengo non debbano essere affatto trascurati per la salute del consumatore.
Ad esempio, sono uno dei primi produttori in Campania ad aver utilizzato il tappo Nomacorc per le mie bottiglie, un brevetto dell’azienda Vinvention che consente un monitoraggio dello scambio di ossigeno, e ne ho sicuramente tratto dei benefici. Per riassumere, anche in questo caso sono inclusivo, ovvero non escludo né l’uno né l’altro approccio, con cognizione di causa.

E’ più difficile produrre vini bianchi o rossi?
Per entrambi i processi di vinificazione l’errore è dietro l’angolo: forse nel caso dei vini rossi gli errori sono meno evidenti, ma solo per chi non è del settore…

Il coinvolgimento delle donne in viticoltura viene definito fondamentale, sua sorella Erminia di cosa si occupa in Azienda?
Mia sorella si occupava (è venuta a mancare prematuramente nel 2012) delle relazioni con i clienti, sia in Italia che all’Estero: gestiva tutti quei fondamentali aspetti relazionali che mantengono forte un’azienda.
Ad ogni modo, non faccio distinzioni di genere nel lavoro, tantomeno nel mio specifico settore. Riconosco alle donne una marcia in più rispetto agli uomini, nella loro più istintiva intelligenza emotiva.

Il cambiamento climatico sta cambiando la geografia del vino, si dice che il sud Italia potrebbe perdere le sue maggiori coltivazioni, lei ne vede gli effetti sulle sue vigne?
Certo. Produco vino da più di trent’anni e tengo da sempre nota degli andamenti climatici delle varie annate: per cui è davvero palese il cambiamento. Non a caso è uno degli argomenti di maggior rilievo in tutte le riunioni di Assoenologi, l’associazione nazionale di cui faccio parte e della quale sono Presidente in Campania.

Il vino non è più riservato agli uomini, le donne lo apprezzano e hanno un gusto diverso, quale dei vostri vini è più amato da loro?
Dipende dalle donne. In generale si associa al gusto femminile un rosè, una bollicina o un vino bianco leggero e fresco. Io però ho delle amiche o delle clienti che bevono vini molto strutturati ed evoluti, come rossi da lungo affinamento. Anche qui non farei distinzioni di genere.

Oggi ci si serve sempre di più dello storytelling per valorizzare il marchio, voi lo utilizzate?
Quasi quotidianamente narriamo il “nostro mondo” attraverso vari canali, in special modo i social networks, coinvolgendo sempre i nostri interlocutori. E’ un processo di reciproca conoscenza, importante per noi e per gli altri.

Il packaging è l’elemento distintivo e comunicativo, voi come l’avete scelto?
La costante del nostro packaging è sempre stata il logo che raffigura il Casino di Caccia della fine del ‘700 presente nella tenuta Di Meo. Dopo le prime etichette, molto classiche, con un semplice lettering con i nomi dei vini, agli inizi del 2000 passammo ad un’etichetta in serigrafia dal design essenziale, esprimendo una vocazione al contemporaneo e all’innovazione. Oggi siamo in una fase di transizione: fra qualche mese, infatti, cambieremo il packaging. Abbiamo puntato sulla coerenza estetica e sulla comunicazione degli aspetti principali del brand, inclusa la sua “storicità” e “classicità” nel territorio irpino, ritornando in maniera moderna alle origini.
Con il vino avete creato cultura, vuole parlarmi del vostro calendario e spiegarmi di che cosa si tratta?
Diversi anni fa con i miei fratelli abbiamo fondato Di Meo Vini ad Arte, un’ associazione culturale volta alla valorizzazione e alla diffusione del patrimonio artistico e culturale campano nel mondo: una vocazione ereditata in famiglia, che nel corso degli anni si è concretizzata in pubblicazioni, iniziative culturali, interventi di recupero di beni architettonici e nella produzione dei Vini d’arte, speciali riserve di Taurasi che si fanno ambasciatrici della storia della regione e del binomio “arte e vino” in Campania. Il progetto più rappresentativo dell’associazione è il Calendario Di Meo, un’opera editoriale unica nel suo genere, che si avvale della collaborazione di artisti, critici d’arte, istituzioni e partner di grande rilievo: un racconto per immagini e allo stesso tempo un saggio antropologico-culturale, che dal 2003 accompagna il lettore in un viaggio sempre diverso, alla scoperta di storie e di luoghi intrecciati con Napoli e le sue tradizioni. Merito anche di una cordata di sponsor italiani e stranieri, che ogni anno contribuisce alla realizzazione di questa opera in edizione limitata, riconosciuta da tutti come un progetto colto e ammirevole, divenuta oggetto da collezione.

Il vino è uno dei volani della nostra economia in termini di posti di lavoro e di export. Se potesse fare una richiesta alla Ministra Bellanova cosa le chiederebbe?
Essendo quello enologico uno dei settori agricoli più importanti in Italia, non solo per l’economia diretta, ma anche per la storia, la cultura e l’attrazione turistica di persone alto – spendenti da tutto il mondo, chiederei un aiuto immediato per quanto concerne la sburocratizzazione. Per il resto condivido le richieste inoltrate da Assoenologi.

Il vino per tutti è il piacere della tavola, è convivialità, per lei intimamente cos’è?
Bella domanda, anche se è difficile sintetizzare una risposta. Parlando da enologo, per me rappresenta la forma di realizzazione professionale che ho scelto sin da ragazzo, un mezzo per esprimere me stesso; parlando da campano, un modo per contribuire alla conoscenza e allo sviluppo di un territorio meraviglioso come l’Irpinia; parlando, infine, su un piano generale, il vino può essere una forma di conoscenza senza fine, un modo per stare con gli altri e per arrivare agli altri, in varie maniere.

Il vino è emozione, ma anche ricordo e allora la invito ad andare indietro nel tempo, lei ha appena assaggiato il vino per la prima volta, dove si trova, con chi è, di quale vino si tratta? Quali sono state le sue sensazioni? Mi racconti.
Anni ‘70, più o meno: senza alcuna fiducia nella mia promessa di fare “il bravo” durante la sua assenza, mia madre mi portava sempre con sé quando andava a visitare le nostre proprietà, dislocate in vari punti dell’Irpinia, sopportando con pazienza le mie chiassose proteste.
Di questo speciale tour subìto, la tenuta di Montemarano era divenuta sicuramente la mia meta preferita: una collina alta sul paese, un lungo versante di vigne ed alberi da frutta ma, soprattutto, il posto dove mi aspettava il mio amico speciale, Santuccio.
Santuccio era l’anziano fattore che curava la proprietà: gran lavoratore, circondato da figli e nipoti nei campi, aveva per moglie una bravissima ballerina che batteva a tempo un piccolo tamburello e che, pur avanti con gli anni, figurava nella mitica Zeza di Montemarano. L’inverno era la sua stagione preferita e, accanto al focolare acceso, sfoggiava la sua arte di “cantatore”, narrando vecchie storie che riguardavano il paese e i suoi abitanti, quasi sempre accompagnandosi con un copioso bicchiere di vino.
Proprio lui un giorno riuscì a placare i miei capricci sull’aia assolata che sovrasta ancora oggi la vigna e a rapire la mia attenzione con la storia di un vino rosso chiamato “Aglianico”. Una storia nata da alcuni chicchi d’uva che avevamo mangiato insieme e che, subito dopo, ci aveva condotti prima nel vigneto e poi nella cantina, dove c’era già il vino a ribollire. Una storia che si era conclusa definitivamente solo alla mia successiva visita, quando a Natale, durante lo scambio di auguri e doni, Santuccio aveva aperto una bottiglia di quel vino e mi aveva onorato di un piccolo assaggio. Una storia, infine, decisamente accattivante per il fatto che, con sempre nuovi dettagli e sfumature, si reinventava ogni volta al nostro incontro. A distanza di anni da questo mondo di tradizioni, il vino è diventato il mio principale interesse, nonché il mio lavoro; Santuccio non c’è più e non so se ci siano in giro eredi della sua affascinante affabulazione, di quella grazia contadina del racconto. Di sicuro in me ha lasciato le suggestioni affettive che solo il fattore umano può donare al vino, reali o fantastiche che siano.

Tra vino e musica c’è un rapporto d’amore. Scelga uno dei suoi vini e un brano musicale per passare una serata conversando con la persona che ama.
Scelgo un Fiano di Avellino, che amo definire la mia comfort zone (ne produco quattro tipologie!!!): da sorseggiare in compagnia, in una fresca serata d’estate, sulle note di My funny Valentine di Chet Baker… You make me smile with my heart!

Che colore ha il vino? L’infinita varietà di colore della natura.

Foto gentilmente offerte da Roberto Di Meo.
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