Nel cuore di una Roma “vecchia e capricciosa”, quella che stupisce, affascina e soprattutto ammalia.
Quella dove i vicoli sembrano stringersi quasi a nascondere il cielo.
Quella dove i passi risuonano cupi, sulle pietre levigate dai carri del tempo che fu.
Quella dove le case si tingono di un ocra giallo e rosso, celando storia e antica nobiltà.
Lì, ecco Il Pagliaccio!
Due stelle Michelin, il regno di Antony Genovese, dove ogni cosa è leggerezza, armonia, equilibrio.
In sala, punta di diamante, Matteo Zappile, in lui rigore, stile, fascino, ma soprattutto passione.
Una lunga intervista che racconta la sala, quella di oggi e quella di ieri, le luci e le ombre del mondo del vino, poi un assaggio di sé, ma solo un assaggio, perché Matteo occorre cercarlo, poi appare, armonico, morbido, vigoroso, di lunga persistenza, come un grande vino.
Il vino, ricorda ancora quando vi siete incontrati per la prima volta?
L’ho incontrato per la prima volta a sei, sette anni, quando pigiavo l’uva con mio nonno in un piccolo tino di legno nella cantina sotto casa, a Montecorvino Rovella, un piccolo paesino del salernitano.
Con i miei zii ci riunivamo per la vendemmia, era una festa, facevamo il vino per la famiglia, un vino che oggi sarebbe impossibile degustare. Due tipologie, il rosso, che ricordo era molto amaro e il Moscato dolce che in campagna si chiama l’Ammiccato, mi piaceva molto, ne bevevo tantissimo, erano costretti a nascondermelo.
E’ uno dei fondatori di “Noi di sala”, associazione che raggruppa i migliori sommelier e maître italiani, dopo quattro anni dalla sua nascita vuole fare un bilancio?
L’Associazione cresce ogni giorno di più. In Italia è la prima e l’unica a essere costituita da soli professionisti, non ne esistono altre. La collaborazione con l’Associazione Italiana Sommelier ci permette di entrare nel mondo della sommellerie professionale. Siamo nati per uno scopo semplice e nobile, la professione del cameriere sta scomparendo, siamo ormai in emergenza, quindi era necessario fare qualcosa. In un ristorante con due o tre stelle Michelin, dove le ore di lavoro aumentano, e con esse non la retribuzione, sono necessari anche sette o otto mesi per trovare il professionista giusto. Dopo quattro anni dalla nascita di “Noi di sala” la professione del cameriere è sicuramente più riconosciuta, anche perché la nostra Associazione è una presenza costante in tutte le manifestazioni. Qualche settimana fa al Bocuse d’Or eravamo noi a fare il servizio, abbiamo inviato un delegato per regione. La nostra idea è stata quella di riunire i più grandi professionisti di sala e fare corsi di formazione, la nostra finalità è formare le leve del futuro. Quindi chi più di chi lavora oggi in sala e conosce il mondo della ristorazione del 2017 può farlo?
Lei è anche sommelier del Sakè, bevanda ancora poco conosciuta, l’Italia, terzo vigneto europeo, perché dovrebbe bere Sakè?
Noi non dobbiamo necessariamente bere Sakè, se lo facciamo è solo per abbinarlo a una cultura, per curiosità, per bere qualcosa di diverso. Il Sakè ha una struttura, un’armonia, che il vino non ha. In una degustazione ne abbassa il livello alcolico e la rende originale in termini di gustativa. E’ una bevanda molto duttile, un Sakè servito a tre diverse temperature, diviene tre Sakè differenti. Credo sia una grande bevanda, di tutto rispetto, legata a una cultura immensa, che noi in Italia, purtroppo, poco apprezziamo.
In questo momento a quale piatto dello chef Genovese lo abbinate?
Abbiniamo il sakè Nigori all’ aragostella estiva laccata al tamarindo, servita in parte cruda su un braciere.
L’impiattare in cucina ha tolto poesia alla professione del cameriere?
Non credo, noi oggi il piatto lo raccontiamo, quindi creiamo un rapporto diverso con il cliente. Questo accade soprattutto qui a Il Pagliaccio dove la comunicazione sul nostro menù è ermetica. Se l’ospite è curioso ci fermiamo a raccontare il piatto qualche attimo in più, se invece si tratta di un pranzo o di una cena di lavoro diamo una spiegazione il più sintetica possibile e ci allontaniamo. Un tempo, quando il maître utilizzava la lampada o sporzionava, in sala c’era show, ma non interazione. Spesso i ragazzi non sanno, e io lo spiego sempre nei miei corsi, che noi facciamo il lavoro più bello del mondo, perché non è fatto solo della sala, ma anche di viaggi, di degustazioni e di conoscenza.
C’è chi dice che i menù degustazione obbligano il cliente a mangiare ciò che vuole lo Chef, lei cosa ne pensa?
Credo che si debba scegliere il menù degustazione per scoprire qual è la filosofia dello Chef. Ordinare alla carta è come andare a una mostra di trecento quadri, vederne solo due e andare via.
Oggi si parla di degustazioni sensoriali seguendo la teoria di Jacky Rigaux, partendo dal luogo dove il vitigno nasce, dove sono le sue origini. Qual è il suo pensiero?
Penso che abbiamo dimenticato la piacevolezza e anche la semplicità del vino. Il vino è solo una bevanda, trovare in esso sentori di cattedrale o di incenso è solo poesia. Poi se vogliamo identificarlo a seconda del luogo dove nasce direi che è possibile, ma romanzare al punto di preparare una scheda di 7000 battute mi sembra molto. Come si sta tornando a una sala dove il cameriere fa il cameriere, a una cucina dove lo Chef utilizza i grandi ingredienti più che le spume e la gelificazione, così bisogna tornare a considerare il vino come una bevanda che nasce dall’uva.
Un tempo si diceva vino dono della terra, oggi si dice lavoro dell’uomo, cosa ne pensa?
Il vino è ancora oggi un dono della terra, ma il lavoro dell’uomo è indispensabile. Tutto ciò che è naturale, biologico e biodinamico è una grande facciata, se lasciassimo un vigneto allo stato brado non riusciremmo a produrre nulla di bevibile. Il lavoro dell’uomo è necessario per produrre grandi vini. Se stappassimo oggi delle bottiglie prodotte negli anni ’50, una su trecento sarebbe bevibile e sicuramente non sarebbe una grande bottiglia. Cosa diversa sarebbe se stappassimo vini francesi, perché in Francia, già negli anni ’20, utilizzavano tecniche più avanzate delle nostre nella produzione.
Quindi naturale sì, ma solo se non nasconde difetti di produzione. Biologico sì, ma solo se si rispetta qualcosa di etico e non solo un disciplinare europeo. Credo che oggi alcune tecniche in cantina siano indispensabili, mentre lascerei più naturale il vigneto.
Se le dico qualità e costanza nella qualità quale produttore le viene in mente?
Me ne vengono in mente due, Frescobaldi e Antinori. Due famiglie che oggi in Italia riescono a produrre sempre grandi vini, anche se legati alle annate. Applicano tecniche che un piccolo produttore non può permettersi e la grandezza delle vigne fa sì che possano scegliere le uve a seconda del clima delle varie annate.
Nella cantina de Il Pagliaccio cosa c’è?
C’è tutto quello che mi piace, 1400 etichette differenti, 26000 bottiglie.
A casa ha una sua cantina?
Ho una cantina, ma ahimè, mai abbastanza fornita perché ho un brutto vizio, i vini finisco per berli, difficilmente li conservo. Ho una compagna che beve solo vini bianchi, quindi oggi nella mia cantina ci sono soprattutto vini rossi che degusto con amici in cene particolari, ma lavoro molto e quindi ho poco tempo e i vini invecchiano.
Qual è il vino che va tanto di moda, ma che a lei non piace?
Un vino che non bevo piacevolmente, ma che è sempre andato di moda è il Gewürztraminer. E’ due vini in uno, è un vino facile per certi versi e complicato per altri. Non bevo un Gewürztraminer dell’ultima annata, mentre ne bevo uno che abbia almeno dieci anni. Mi piacciono molto i vini scaduti.
Chi sono i vostri clienti?
Sono stranieri per il 95%. Gli italiani, a Roma, si aspettano una cucina classica fatta di carbonara e cacio e pepe. Lo chef Genovese poi utilizza tante spezie e tecniche orientali, quindi spesso ci chiedono fuori carta e piatti come vitello alla griglia e insalate e noi non ne abbiamo.
Come si fa a capire qual è il vino giusto per un cliente?
Spesso i nostri ospiti sono delle coppie che vengono da noi per un evento particolare. Quando mi avvicino al tavolo chiedo loro da dove arrivano per proporre un vino che al loro Paese non possono trovare e che rimanga legato a questa esperienza Italia, Roma, Il Pagliaccio. Cerchiamo di fare degli abbinamenti che permettano agli ospiti di godere la cena, ma soprattutto il dopocena, la nostra abilità sta nel consigliare bottiglie che non eccedano nell’alcol onde evitare che l’esperienza sia rovinata. Le nostre sono degustazioni a sorpresa, gli ospiti non sanno nulla, facciamo degli abbinamenti mirati a seconda dei piatti dello Chef. Piatti molto complessi ai quali abbiniamo non solo vino, ma anche sakè, distillati, infusi.
Un abbinamento inedito che, trovando un ospite curioso che si lascia condurre, le piacerebbe proporre.
L’ostrica in verde, burrata, tapioca e zenzero da accompagnare con il Distillato di canna di bambù.
Un distillato molto particolare che sa molto di fumé, molto di legno, ma la gustativa è molto verde.
E’ un qualcosa che esula dall’abbinamento classico.
Cosa le piacerebbe bere tra 10 anni?
Un Brunello del 2010.
Quali saranno invece i gusti dei consumatori tra 10 anni, vuole fare una previsione?
Credo che dopo tanto biologico, biodinamico, organico e vegano si berrà soprattutto il vino classico, il vino buono a prescindere dalle etichette. Il cliente ricerca sempre di più la piacevolezza. La richiesta è di solito, vorrei bere un vino fruttato, floreale, di grande espressione e persistenza che sappia di… e non, voglio un vino biologico, biodinamico, oppure vegano.
Lei è stato premiato come Il Sommelier dell’Anno per i Ristoranti d’Italia 2017 de Le Guide L’Espresso, quando le è arrivata la comunicazione, cosa ha provato?
Sorpresa, felicità, una grande emozione, un grande orgoglio, perché so che L’Espresso pondera molto i premi che dà, negli anni scorsi ha premiato grandissimi personaggi. Non me l’aspettavo, l’ho saputo in via ufficiosa cinque mesi prima, con la promessa di non divulgare la notizia prima dell’uscita della Guida.
In quel momento si è sentito arrivato?
Ho ricevuto il premio nel momento in cui sono divenuto il Direttore del ristorante Il Pagliaccio, quindi è stato un premio di passaggio, non di passaggio di consegne, ma di passaggio di esperienze. Per me non è stato assolutamente un arrivo. Gli arrivi sono per altre cose nella vita. Il mio lavoro mi appassiona e mi dà piacere, quando questo non accadrà più dovrò cambiare, per rispetto del cliente.
Esiste un vino che le ha cambiato la vita?
Ogni vino è legato a un momento. Ci sono vini che hanno scandito il mio percorso lavorativo e personale, ma non esiste un vino che ha cambiato la mia vita.
Un vino che le ha soddisfatto sensi e mente.
Bucci 92 Verdicchio.
Lei è sicuramente un uomo affascinante, quanto questo influisce sul suo successo lavorativo?
Il mio successo lavorativo credo essenzialmente sia dovuto soprattutto all’impegno che metto nella mia professione. Sono molto conosciuto anche grazie all’Associazione” Noi di sala”. Comunque sì, l’aspetto fisico, in una professione come questa, influisce sicuramente.
Se la felicità fosse un vino cosa sarebbe?
Sarebbe un grande Barolo.
Un attimo di nostalgia, cosa versa nel bicchiere?
Verso un Taurasi, che mi ricorda, la mia regione, la mia Terra, la mia infanzia.
Vuole dirmi tre colori che ha per lei il vino?
Celeste, legato alla serenità, alla mia infanzia. E’ uno di quei colori che ricollego sempre a un momento bello della mia vita e quindi anche al vino.
Rosso, che è il colore della passione, della forza e dell’energia. Per arrivare fin qui non nascondo che il percorso non è stato facilissimo, quando i ragazzi della mia età andavano a divertirsi a Ibiza io lavoravo. Quindi è un po’ il colore del sacrificio.
Bianco, che un foglio bianco tutto da scrivere con le emozioni che il vino ancora oggi mi fa provare, indipendentemente dalle annate e dalle varie tipologie.
Una musica che per lei rappresenta il vino.
Ascolto alcuni cantanti italiani che non possono essere considerati contemporanei. Ascolto tanto Battisti, quindi direi La canzone del sole oppure I giardini di marzo. A seconda di come mi sento a livello emotivo ne scelgo una, perché Battisti, a volte, può essere anche molto triste.
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