
Allegra, frizzante, alla moda, sofisticata e cosmopolita, questa è Taormina. Piccolo scrigno di storia, di miti, di antiche leggende che narrano gesta di eroi. Olivi, mandorli e aranci la fanno bella e profumata e lei da lassù guarda l’azzurro del mare e Iddu, il misterioso gigante che a tratti lancia, iracondo, lapilli fiammanti o calmi sospiri di fumo. A Taormina vive a lavora Pietro D’Agostino. La sua cucina nasce dalle “piccole cose”, elaborazione di materie prime pure che diventano piatti. Nessuna esasperazione, solo l’attimo fuggente di una raffinata e leggera eleganza. Un gioco di luci e colori, gocce di sapore cadute da tanti pennelli. La terra, il mare, il sole sono stimoli di creatività. Pietro D’Agostino non cucina, canta, canta la Sicilia, come la sua piccola Capinera.

La morsa del virus sembra attenuarsi, le terapie intensive cominciano a respirare e allora io vorrei pensare al futuro, a un dopo, e voglio invitarla ad andare avanti nel tempo e a immaginare. Siamo a Taormina, nel suo ristorante La Capinera, che ha appena riaperto le sue porte, in sala ci sono solo ospiti italiani, che arrivano da ogni Regione, per la loro prima vacanza dopo l’epidemia. Non conoscono il suo ristorante, sanno solo che lei è Pietro D’Agostino e che sulla sua giacca è ricamata una Stella Michelin. Si presenti, presenti i suoi collaboratori, racconti loro come sarà la sua cucina e quale esperienza gustativa stanno per vivere.
La Sicilia è la musa ispiratrice della cucina della Capinera. Con una brigata di 8 elementi invento giornalmente piatti di grande armonia, in cui il filo conduttore restano le stagioni e i frutti della mia amata terra. Sento il legame con un’isola meravigliosa, così piena di contraddizioni, e forse per questo affascinante. Nulla è scontato da queste parti. Vulcanici e generosi, pronti a lasciarsi andare a grandi slanci senza chiedere nulla in cambio, noi siciliani siamo, tenaci, capaci di scandire il tempo con pazienza, difficilmente cediamo alle lusinghe dell’estetica e ricerchiamo sempre la qualità, forse perché l’abbiamo dovuta conquistare a fatica, con impegno e passione. Tutto questo si rispecchia anche nella mia cucina. La mia cucina è uno still life della Sicilia: solare, fresca ricca di tradizione, ma moderna. Creatività, memoria e territorio sono gli ingredienti principali che valorizzo nei miei piatti, un approccio che trova riscontro nei menu creati nel rispetto delle stagioni. Fondamentali sono i rapporti con i produttori del territorio, con i quali si lavora a progetti in uno scambio virtuoso di suggerimenti e proposte. La cucina è ricca di prodotti fragranti, sapori che stanno in un delizioso equilibrio tra terra e mare, ricca di spezie e profumi particolari. Nei miei piatti ci sono alcuni ingredienti che non possono mancare mai: Il pesce azzurro dello Jonio, per cominciare, che è un toccasana per la salute.

La Capinera, subito viene alla mente l’opera di Giovanni Verga e la sua protagonista, la sfortunata e romantica Maria. Un cuore semplice e ingenuo, che dopo aver scoperto, proprio a causa di un’epidemia, la natura, la vita e l’amore, morirà rinchiusa in convento, come una piccola capinera in gabbia. Perché ha scelto questo nome così evocativo per il suo ristorante?
Ho deciso di chiamare il ristorante La Capinera come l’uccellino dal canto melodioso, tipico dell’area Mediterranea molto vivace, ma anche di indole timida che torna nel suo habitat dopo lunghe migrazioni. Un po’ come me, che ho deciso di tornare nella mia Taormina, dopo quindici anni di assenza, in giro per il Mondo. E proprio come il canto della Capinera, che è emesso dapprima in sordina, con l’avvicinarsi della “stagione degli amori” aumenta d’intensità, sino a raggiungere la sonorità piena, anche io sono arrivato con una valigia piena di tanta esperienza, con la voglia di avviare un mio progetto, ma con mille paure e difficoltà di chi si appresta a mettersi in proprio, fare impresa, che significa non occuparsi solo della cucina. Sono passati più di sedici anni e non mi sono mai pentito di quella scelta. Contento di rappresentare oggi un punto di riferimento per il mio territorio, fregiato anche del titolo di ambasciatore siciliano del gusto. Sono stato costante, umile, non dimenticando mai che il mio posto fosse dietro ai fornelli. Oggi gli chef godono dell’attenzione del grande pubblico, i fortunatissimi format televisivi hanno portato il piacere del cucinare bene e sano veramente in ogni casa e molti ragazzi immaginano un proprio futuro lavorativo come chef. Siamo diventati esempi da seguire. Ma attenzione, c’è rischio di ingenerare il pensiero che il nostro lavoro sia solo intrattenimento e immagine. Fare lo chef implica oltre alla tanta passione, soprattutto impegno, dedizione, disciplina, tanto più che ora gli standard qualitativi si sono alzati tantissimo. Per questo, penso che non dobbiamo mai dimenticare che il nostro luogo resta sempre la cucina. Fondamentali sono i rapporti con i produttori del territorio, con i quali si lavora a progetti in uno scambio virtuoso di suggerimenti e proposte.

Incantata, fiorita, splendente nell’azzurro del mare, così appare Taormina a un viaggiatore, ma per lei che l’ha scelta come il luogo dove aprire il suo ristorante, intimamente Taormina cosa è?
Taormina è il mio luogo del cuore, in cui sono nato quarantotto anni fa, ma anche un luogo dell’anima, perché è da quel mare che leviga la costa di Spisone, che celebro la mia Sicilia nei piatti, declinando un paradigma culinario rimasto invariato nel tempo: materie prime di eccellenza, territorio, metodi di cottura salubri. “Pietanze semplici e sincere” perché esaltano gli ingredienti e incontrano le aspettative del cliente, sempre più attento e consapevole.

Gusto, talento ed eleganza, questo è quello che si trova nei suoi piatti. La Michelin continua a premiarla da dieci anni. Riesce ancora a ricordare le sensazioni provate la “prima volta”? Oggi la sua cucina è diversa da quella di allora? La Stella, inevitabilmente, la influenza?
Rinnovo quelle sensazioni ogni anno. Non do nulla per scontato e vivo questo riconoscimento cucito sulla mia giacca da chef con un grande senso di responsabilità, soprattutto nei confronti dei consumatori. Non si cucina più come una volta, naturalmente: la materia prima ha riconquistato una sua identità e un suo protagonismo nelle pietanze che risultano ora più semplici nella elaborazione, più ricercate nella interpretazione di ingredienti e accostamenti; e sono profondamente mutati anche i metodi di cottura attenti alla conservazione del gusto e delle proprietà del cibo. Sempre di più, si parla di cucina consapevole con i tre capisaldi: sostenibilità, ambiente e salute.

Cucinare è parlare al mondo. Cosa raccontano i piatti de La Capinera?
Con i miei piatti parlo con molta schiettezza ai clienti. Non amo le eccessive elaborazioni, prediligo gli ingredienti riconoscibili all’occhio e al palato. Mi piace sperimentare gli accostamenti, ma resto un appassionato della semplicità.

La cucina è amore. Definirebbe il suo menù degustazione un’avventura amorosa?
Non so se definirla un’avventura amorosa, di certo è un momento cui cedere con curiosità e con tutti i sensi: la vista, l’olfatto, il gusto. Assaporare senza fretta ogni boccone, concedersi il piacere di aprirsi a nuove esperienze. Certamente, come in amore, anche in cucina, è questione di gusti, di empatia, non esistono canoni prestabiliti. In questo senso può diventare perché no, un’avventura amorosa.

Armonia di sapori e di consistenze è quello che tutti cerchiamo in un piatto. Come si ottiene? Come nasce un suo piatto, quali sono le fasi della creazione?
I miei piatti nascono per caso. Magari la sera prima raccolgo un’erba aromatica dal mio orto in casa, e annusandola mi evoca l’odore del mare, di un particolare pesce. Allora, il giorno mi metto ai fornelli e improvviso. Mi lascio guidare da un po’ di esperienza, dalla fantasia e dal gioco.

La cucina è anche cultura, cosa c’è della Sicilia nei suoi piatti?
La Sicilia è la terra che tante popolazioni hanno vissuto e dominato nel corso dei secoli: siamo il cuore del Mediterraneo e, in questo senso, la sintesi di una tradizione che è stratificazione di tante culture anche in cucina. Dai greci ai romani, passando per gli arabi, gli spagnoli, i francesi, ognuno di loro ha lasciato qualcosa di sé, che poi si è inevitabilmente innestato con il vecchio e con il nuovo, diventando a sua volta unico e irripetibile. La mia cucina è uno still life della Sicilia: solare, fresca ricca di tradizione, ma moderna. Creatività, memoria e territorio sono gli ingredienti principali che valorizzo nei miei piatti, un approccio che trova riscontro nei menu creati nel rispetto delle stagioni.

A questo punto della sua lunga carriera qual è il piatto che sente più suo, quello che maggiormente la rappresenta e la rende riconoscibile?
Non c’è una ricetta in particolare, ma tutte hanno un comune denominatore: saper seguire il ritmo delle stagioni e la mappa delle materie prime coltivate, prodotte, realizzate con cura e rispetto. La Sicilia va scoperta in lungo e in largo alla ricerca di prodotti assolutamente Dop, unici per le caratteristiche e per l’habitat nel quale sono stati coltivati: da Pachino, dalle suggestive serre delle calde terre più a sud dell’isola, arriva il pomodorino che utilizzo in cucina, così come da Avola arriva la mandorla ‘bianca pizzuta’. Dal ragusano arrivano le mozzarelle di bufala e il caciocavallo, da Giarratana la tipica cipolla rossa e da Chiaramonte Gulfi, l’olio extra vergine di oliva, altro pilastro della dieta mediterranea. A Trapani, si fa scorta di sale di Motia e di aglio di Nubia. E Poi, le isole minori regalano altri straordinari sapori, come i capperoni di Salina o l’occhio di pernice di Pantelleria. Il pesce azzurro, il re del Mediterraneo, per me è irrinunciabile.

L’argentea nebbia degli olivi siciliani. Quanto è importante l’olio nei suoi piatti? Qual è quello che preferisce?
L’olio è un caposaldo della dieta mediterranea. Direi che la scelta di un olio di qualità è obbligata. Quanto alla tipologia senz’altro cambia a seconda degli abbinamenti che il piatto richiede. La Sicilia offre un ventaglio di olii eccezionali: ci sono monocultivar come la Tonda Iblea, Nocellara del Belice dalla fragranza intensa incredibile. Amo molti gli olii dell’Etna. Tra tutti ho per esempio selezionato un “quota mille” Nocellara dell’Etna da inserire nei miei prodotti che escono con la mia etichetta “Io Pietro D’Agostino”.

Il piatto come un’opera d’arte. E’ mai accaduto che la pittura e la scultura influenzassero le sue creazioni?
Certo che sì. Ci sono piatti del mio menu, che ricordano per colori e mise en place dipinti ad olio, rievocano Mirò, come per esempio Passeggiata per la Sicilia un racconto di prodotti che attraversano il nostro variegato territorio: Un antipasto a base di polpo alla brace con mandorle pizzute di Avola, capperi di Salina e pomodori datterino di Pachino al forno, accompagnato da un mosto di fichi d’India con primizie dell’orto. Un piatto che costituisce la sintesi perfetta di una cucina di innovazione che nel tempo ha cambiato stile e linguaggio, continuando a rispettare tradizione, stagionalità e territorio.

I colori suscitano sentimenti nascosti, qual è il colore che ama di più e che predomina nei suoi piatti?
Non c’è un colore predominante.
“Creare dei legami”, per non essere uguale a centomila, questo è scritto nella favola Il piccolo Principe. La conoscenza è quella che l’ospite oggi desidera, ma è anche quella che arricchisce lo Chef perché alimenta la sua crescita personale e le sue competenze. Lei mantiene il legame con i suoi ospiti? Lo ha fatto durante la pandemia?
Assolutamente sì. Ricevo ogni giorno messaggi e telefonate dei miei clienti, che non vedono l’ora di venirmi a trovare.

Il cibo è un evocatore di ricordi e allora la invito ad andare indietro nel tempo. E’ sera, lei è un bambino, è a tavola con la sua famiglia. In quale città siamo? Chi è con lei? Chi ha cucinato e cosa state mangiando? La cucina profuma di? Mi racconti…
Un ricordo visivo e olfattivo, ancora oggi è l’odore del pane e la pasta fatti in casa, la raccolta delle primizie dell’orto, la salsa che cuoceva per ore nei pentoloni, il pesce fresco acquistato all’alba. Sin da bambino, mi lasciavo incantare dalle operose mani di mia madre e di mia nonna, che in cucina si dedicavano alla preparazione di cibi sani e genuini, legati alla vecchia tradizione siciliana. Il mio piatto preferito? Stupirò ma io resto un appassionato della pasta. Trovo irrinunciabile un piatto di spaghetti al pomodoro. Semplice, tradizionale, intramontabile direi.

Una sera d’estate, la terrazza de La Capinera, la invito a scegliere un vino siciliano e una persona del mondo del cibo che non c’è più, per attendere l’alba conversando.
Marco De Bartoli, vignaiolo, pioniere della valorizzazione dei vitigni autoctoni e custode delle tradizioni vinicole, l’ho conosciuto tanti anni fa. E’ venuto a trovarmi al ristorante 12 anni fa, due anni prima che morisse. Abbiamo chiacchierato davvero fino all’alba di tanti argomenti di come la ristorazione sia cresciuta nella nostra regione, dello straordinario e affascinante mondo del vino a cui lui apparteneva, fautore dei vini naturali e del futuro dell’export. Oggi davanti a due calici e due bottiglie di vino che lui amava tanto, Terza via Rosè e Grappoli del Grillo, vorrei dirgli solo Grazie di cuore.

Mi permetta una domanda personale, chi vive accanto a lei? Perché è importante nella sua vita e nel suo lavoro?
Vivo da oltre dieci anni con la mia compagna Morena. Oggi siamo diventati anche una squadra non solo nella vita privata. E’ lei che gestisce il nostro secondo locale Kistè, aperto a marzo 2017, un contenitore gastronomico nel cuore di Taormina, incastonato in uno storico palazzo del tardo Quattrocento. L’abbiamo pensata come una formula easy gourmet, una cucina essenziale che mette in evidenza la straordinaria bontà di ingredienti esclusivamente prodotti in Sicilia. Morena è una grande creativa, ma anche quella razionale fra i due, che riesce a contenere a volte i miei voli pindarici. Adoro i suoi modi accoglienti e rassicuranti. Ha deciso di affiancare nel lavoro, dopo una lunga esperienza ultra ventennale nel settore turistico alberghiero.

Per chiudere, qual è oggi il suo orizzonte?
Per i futuri progetti continueremo ad incardinarli attorno all’asse della sostenibilità. Fare scelte etiche in cucina significa non solo porre attenzione alla provenienza dell’ingrediente, alla stagionalità, ma anche al modo in cui ogni prodotto viene successivamente trasformato. Territorio, materie prime, non spreco e centralità dell’uomo, è dunque un paradigma attorno al quale alcuni degli interpreti più illuminati dell’alta ristorazione si stanno già muovendo. Cucinare consapevolmente significa rispettare le materie prime, valorizzandole in ogni fase, dalla produzione alla conservazione fino alla loro trasformazione finale, attraverso un metodo di cottura ideale che ne conservi gusto e proprietà. Significa minimizzare gli sprechi, sviluppando inventiva e creatività. La cottura è intesa come celebrazione di un ingrediente. Sono passati quindici anni dall’apertura della mia Capinera, e continuo a immaginare di valicare nuove frontiere. Sono tante le mete ancora inesplorate, si nutrono di emozioni, si incasellano ai passi già compiuti e a quelli che verranno, prendono forma piano piano. Non hai mai la certezza di quale sarà la prossima tappa, ma solo la consapevolezza che non esiste un punto di arrivo, in un meraviglioso divenire.

Cara Gabriella pensa che ho avuto l’onore di fare un corso con lui. Persona competente e umile.
Ciao Solema, tu scegli sempre i migliori per la tua formazione.