Da un orizzonte piatto e sconfinato fatto di paludi, fiumi e lagune, via verso il sud, dove il mare si fa più azzurro e scintilla al sole, dove le rocce calano a picco, dove i sapori si fanno intensi, dove il profumo e il giallo dei limoni stordisce e ammalia.
Poi in Turchia, come messaggero della cucina campana, grande entusiasmo, tanto successo, ma anche un pizzico di nostalgia per l’Italia lontana.
Ora nuovamente Capri, la “regina di roccia” di Pablo Neruda. Zaffiro blu dove annegare e perdersi e dove Matteo Pezzuolo riesce a esprimere al meglio quella mediterraneità che ormai oggi “è” la sua cucina.
Chi può considerare il suo maestro?
Lo chef Andrea Migliaccio. Io sono cresciuto accanto a lui, cucinavamo insieme, oggi avendo lui tanti ristoranti da gestire ha passato il testimone a noi, gli Chef che lui ha formato. Andrea riesce a spronare, riesce a tirare fuori il meglio dai suoi collaboratori, dà una carica emotiva incredibile. Lui è un punto di riferimento, è la persona con cui puoi confrontarti, a cui fare proposte. Ti dà sempre modo e spazio per poter creare.
Perché oggi Matteo Pezzuolo è uno chef?
A mamma piace tanto cucinare, a babbo cucinare e mangiare. Crescere in una famiglia così mi ha portato a tredici anni a scegliere la scuola alberghiera. Fare la scelta giusta a quell’età non è facile, io sono stato fortunato.
Lei cucina ancora?
Certo, solo cucinando nasce l’ispirazione per creare nuovi piatti. Io cerco di organizzare il lavoro burocratico necessario per il ristorante in maniera tale da avere il tempo necessario per cucinare insieme ai miei ragazzi. Cucinare mi aiuta a mantenere la manualità, molto importante soprattutto nella preparazione dei primi piatti. Cucino sempre, anche quando sto male, farlo mi dà una grande forza.
Oltre allo spirito di sacrificio per fare questo lavoro al meglio cosa è necessario?
Si lavorano anche quindici ore al giorno, si riesce a fare questo lavoro solo se si è psicologicamente preparati. Ci vuole un grande carattere, bisogna avere la capacità di lavorare in team, e anche, nel caso, di essere leader.
La sua è una cucina ragionata o istintiva?
E’ entrambe le cose. Spesso la stesura di un menù direziona la mia creatività, ma poi posso liberarla con qualche piatto speciale. La mia cucina è amore e passione.
Uno Chef solo guardando un piatto si può capire se è buono?
Noi Chef possiamo conoscere gli ingredienti, possiamo sapere che ben si abbinano tra loro, ma ogni piatto deve essere assaporato nella sua pienezza, solo così possiamo capire se esprime ciò che avevamo in mente e se ha un equilibrio di sapori.
Come si ottiene un palato da Chef?
A volte lo si possiede naturalmente, in caso contrario lo si può affinare sperimentando e assaggiando, anche i piatti dei colleghi per capire quali sapori vogliono esprimere.
Il cibo di molte regioni italiane ha sapori molto marcati, questo può influenzare i piatti degli Chef?
Sicuramente sì, soprattutto per quanto riguarda la sapidità. La cucina della mia regione è molto delicata, ma a me piacciono i sapori forti, amo la mediterraneità.
La sala, nota dolente di molti ristoranti, anche di alto livello, vorrei un suo commento.
La sala è fondamentale, senza, il lavoro dello Chef perde valore. Un restaurant manager, un maitre un cameriere devono possedere una grande personalità e devono essere in grado di trasmettere il messaggio che tutta l’organizzazione che c’è alle spalle vuole dare.
Lei ha una buona sala?
Certo! All’inizio della stagione spiego i piatti che abbiamo creato. Ogni giorno c’è un briefing in cui entro nel dettaglio di ogni preparazione, perché è importante che il personale di sala sappia raccontare il nostro lavoro agli ospiti. E’ necessario un dialogo continuo tra sala e cucina. Il “fenomeno” da solo in cucina non può fare nulla. Ha bisogno di buoni esecutori, di collaboratori che abbraccino il suo stile, la sua filosofia e che sappiano divulgarla.
Chi è l’erede di Marchesi?
Marchesi ha portato in qualche modo una rivoluzione in cucina. Oggi in Italia abbiamo tanti grandi Chef, ma l’erede di Marchesi forse in questo momento ancora non c’è.
Il piatto che più amava da bambino?
La pasta al pomodoro.
Se apro il suo frigorifero cosa trovo?
Lo yogurt, impazzisco per lo yogurt! Ma anche il parmigiano, il burro, il peperoncino, i limoni.
Quando è triste cosa mangia?
Forse un cioccolatino, ma non cerco di superare il momento di tristezza mangiando.
Quando è felice?
Se sono felice posso anche non mangiare.
Lei lavora molto all’estero, quando ha nostalgia di casa cosa mangia?
Un piatto di pasta o una grande insalatona.
Un colore che per lei rappresenta il cibo?
Il verde, un colore che mi dà energia.
Una musica che per lei rappresenta il cibo?
Ogni piatto ha la sua musica. Però direi musica rock.
Ha un sogno nel cassetto?
Aprire un ristorante mio sul Lago di Garda, vicino ai miei affetti, i miei genitori, mia sorella, mio nipote.
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