
Aroma: bellezza, eleganza e semplicità. Giuseppe Di Iorio il suo Chef.
Una cucina raccontata mille e mille volte, come accade ai grandi, a chi rappresenta la cucina italiana nel mondo.
E allora, oggi, un Giuseppe Di Iorio più intimo e segreto. La tradizione che bussa e si affaccia prepotente mettendo in dialogo il gusto di un tempo con quello di oggi. Sapori, ricordi, presenze, nascosti nel cuore, che tornano a fargli visita.

Perché ami questo lavoro?
Perché è il lavoro più bello del mondo, perché ogni giorno è diverso, perché mi prende emotivamente a trecentosessanta gradi. Quando cucino in questa location e ho il feedback del cliente, mi sento il padrone del mondo. Regalo emozioni ed esperienze e questo mi rende felice.

Se ti chiedessi di creare un piatto per la persona che ami cosa prepareresti?
Creerei un piatto che abbia i sapori della cucina di mia madre, quei sapori di una volta che mi hanno fatto appassionare a questo meraviglioso lavoro.

Vuoi raccontarmi cosa hai provato quando sei salito quassù la prima volta?
E’ stata una grande emozione. Mi sono affacciato e ho visto tutta la bellezza di Roma. Non ci sono luoghi più belli al mondo. A quel tempo qui non c’era nulla, solo un albergo a quattro stelle con prima colazione. Ricordo che avevo appena compiuto quarant’anni, sentivo che stavo, per così dire, invecchiando, stava avvenendo in me un cambio di pensiero, di prospettiva, a livello personale e familiare. Arrivavo da nove anni di Mirabelle, dove avevo raggiunto tutti gli obiettivi possibili, è stato quasi un invito a ricominciare, a creare qualcosa di nuovo, una sfida, ho deciso di rimettermi in discussione. Aroma lo sento mio, è una mia creatura. Lo scorso anno ho avuto in premio dalla proprietà questa bellissima cucina, avevamo bisogno di un nuovo stimolo.

La tua è stata una carriera pianificata o tutto è avvenuto per caso?
Ho iniziato a lavorare a diciassette anni, quando è mancato mio padre. Anche lui faceva il cuoco, e quello era il momento in cui mi stavo formando come uomo e come professionista. E’ stato un momento difficile, ho lasciato la scuola alberghiera. Era il 1988, la figura dello Chef non era quella di oggi, quando si sceglieva questa professione era per passione, il modello a cui ispirarsi era Marchesi. Quando ho cominciato a lavorare dodici ore al giorno, rinunciando alla famiglia, agli amici, alle feste, allo stadio la domenica, ho deciso di diventare un cuoco di livello, di avere delle soddisfazioni, di non rimanere un cuoco qualunque.

Marchesi ha cambiato la cucina italiana, chi ha preso il suo posto?
Faccio fatica a fare un nome, la cucina oggi è molto omologata. Forse Davide Scabin, un visionario, un innovatore.

A questo punto della tua carriera ti capita mai di provare ansia da prestazione?
Ho cucinato per gli uomini più importanti della terra. George Bush, dopo aver assaggiato la mia cucina, ha chiesto che gli preparassi il pranzo per Air Force One. Ho cucinato per Erdogan con il suo chef personale con la pistola in cucina, affiancato da centosessanta guardie del corpo. Dopo tutto questo, non ho più ansia nel mio lavoro.

Una cena d’autore, ma spesso l’autore non c’è. Vorrei un tuo commento.
Io cerco di essere presente il più possibile, ma non perché “devo”, ma perché faccio questo lavoro per passione. Cucinare mi emoziona ancora come il primo giorno.

Spesso i colleghi delle cucine “povere” dicono che è facile arrivare al successo avendo a disposizione aragoste, tartufi e una brigata di sedici persone. Pensi sia effettivamente così?
E’ più importante la mano dell’ingrediente. Il piatto più complicato è infatti lo spaghetto aglio, olio e peperoncino. Bilanciare questi tre ingredienti non è facile. Io, all’inizio della mia carriera, sono riuscito a cucinare per un catering, con il fango che mi arrivava fino al ginocchio, per duecento persone, sotto la pioggia battente. Con passione e dedizione si può cucinare bene senza ingredienti costosi e senza attrezzature.

Roma è vista ancora come carbonara e amatriciana e qual è il piatto che i turisti stranieri amano di più?
Oggi la cucina di Roma non è più vista solo come quella della trattoria, anche dagli stessi romani. Gli stranieri amano gli spaghetti e la pasta ripiena che non riescono a riprodurre, ma amano anche i volatili come il piccione o la pernice.

Hai amici tra i tuoi colleghi?
Assolutamente sì! Con Stefano Marzetti siamo legati da amicizia e stima. Stravedo per Massimo Viglietti. Ci prendiamo in giro per le squadre di calcio. Lui nel suo menù ha un dolce che porta il mio nome.

Tu appari come il cuoco più allegro e solare, sei effettivamente sempre così? La tua è una cucina dove si lavora serenamente?
Sono così, non mi sono creato un personaggio. Non sono un santo, ma il mio secondo chef lavora con me da undici anni. Il pasticcere ha iniziato con me, ha girato il mondo per Heinz Beck, e ora sono riuscito a riportarlo qui con me, il ragazzo dei primi Davide è con me da quattordici anni.

Il cibo è soprattutto ricordo. Se pensi alla tua infanzia cosa ti viene in mente?
Le bottiglie di pomodoro che preparavamo a fine agosto. Facevamo i pomodori tutti insieme, anche per le mie sorelle sposate, quindi per cinque famiglie. Io avevo dieci anni, era una festa, ricordo il profumo del pomodoro, le bottiglie che cuocevano nel calderone. Il mio compito era quello di aggiungere le foglie di basilico.

Quattro sorelle, una mamma, una figlia, di te si può dire “beato tra le donne”.
E’ così, sono stato sempre molto coccolato, ma le donne più importanti della mia vita sono mia madre e mia figlia. Mia figlia è la mia vita, abbiamo un bellissimo rapporto, siamo molto simili per carattere e per fisionomia. Ha gusto, palato e grazia, soprattutto per la pasticceria, ma non ha potuto scegliere questa professione per la celiachia che abbiamo scoperto cinque anni fa. Per lei ho creato il primo menù gourmet per celiaci. Credo sia orgogliosa di me.

La tua è una grande e bella famiglia, nonostante il tuo lavoro riesci ancora a mantenere un legame stretto?
Mamma oggi ha novant’ anni e grazie a lei ancora oggi ci riuniamo la domenica, vengono anche i nipoti. Non facciamo più però i grandi pranzi di un tempo, quando ci sedevamo a tavola a mezzogiorno e terminavamo alle cinque, per poi tornare nuovamente a tavola alle sette. Un po’ mi dispiace!

Questo è il mio pane, questo è il profumo della mia infanzia che ho voluto ricreare qui ad Aroma. A quel tempo bastava una pagnotta, una fetta di prosciutto, l’nduja spalmata, un’oliva. Con un pane così mangiavi sempre e andavi a dormire felice.

Allora oggi cosa mangi quando sei felice?
Un carciofino sott’olio, una fettina di salamino, del pecorino, una fetta di pane e un piccolo bicchiere di vino. Questo mangio quando sono felice, ma anche quando torno a casa la sera dopo il lavoro.

Cosa mangi quando sei triste?
Una minestra di legumi, calda e consolatoria.

Qual è il rumore del cibo?
Lo spadellare. Il rumore del forchettone durante la mantecatura.

Una musica che per te rappresenta il cibo.
I giardini di Marzo di Lucio Battisti, poesia pura.

Raviolo di arzilla con broccolo romano
Un piatto che celebra la tradizione romana, la cucina povera delle origini. Una rivisitazione della minestra di broccoli e arzilla, che pare i Romani mangiassero il mercoledì per utilizzare il pesce non freschissimo del giorno prima, con i broccoli raccolti sul Colle degli Orti, il Pincio, innaffiati con l’acqua del Tevere. Ho sostituito lo spaghetto spezzettato con il raviolo, un contenitore di idee. Questo piatto mi ricorda l’autunno, la mia storia, la mia tradizione.

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