Roma, a due passi dal Colosseo Caffè Propaganda, locale glamour e alla moda della Capitale. Lo chef, Fabio Pecelli, una cucina ludica, di effetto, che quasi nasconde tecnica e “testa bassa”, come lui ama dire. Poche foto in cucina ahimè, ma tanta disponibilità nel raccontarsi con leggerezza, e nell’analizzare il mondo del cibo, come raramente accade.
Come nasce un piatto?
I miei piatti solitamente sono sempre coerenti con il ristorante in cui lavoro. Qui a Propaganda nascono un po’ al contrario perché abbiamo un orto biologico, quindi prima mi consulto con il nostro agronomo e con chi sta materialmente sul campo per conoscere la disponibilità, anche nel tempo, di frutta e ortaggi. Inoltre siamo a Roma e quindi ogni piatto deve parlare romano, deve avere una storia e una tradizione da raccontare. Una volta scelti i prodotti inizio a lavorare applicando le tecniche di cucina più evolute, trasformo gli ingredienti e creo il piatto. Spesso è accaduto che dopo la creazione del piatto sono stati necessari altri tre mesi di lavoro per poterlo perfezionare. A volte sono preparazioni lunghe ed elaborate, come per l’ovo mi su dove, solo per il guscio, servono tre giorni di lavoro.
Un tuo piatto è il tortello liquido di carbonara, come il raviolo, il tortello è definito una sfida culinaria, lo spessore della sfoglia, il ripieno, i tempi di cottura, il sugo di accompagnamento, devono uniti creare perfezione e armonia. E’ questo il tuo piatto emblematico?
E’ il mio piatto bandiera ed è in menù da cinque anni. Nonostante l’età resta innovativo, ma non è il mio piatto emblematico, il piatto perfetto. In esso coesistono tecnica e tradizione, è composto da tanti bon bon che esplodono in bocca liberando una carbonara leggera, ma non è un piatto sempre uguale. Cambia infatti a seconda della stagionatura del guanciale, la qualità e la quantità del pecorino. Proprio ieri ho provato a diminuire la temperatura di cottura della farcia, la mia è una continua ricerca per cercare di migliorarlo.
Nei tuoi piatti c’è sempre l’effetto sorpresa?
Sì, mi piace giocare. Quando è possibile cerco di “spiare” l’ospite per cogliere l’effetto WOW, quando il piatto arriva in tavola.
Qual è l’elemento più importante in un piatto?
La replicabilità, tutti nella brigata devono essere in grado di riprodurlo, ricreando lo stesso sapore.
Quando si sceglie una cucina d’autore e l’autore non c’è, non pensi che possa essere deludente?
Non credo, basta che la cucina sia sempre ai massimi livelli anche se manca lo Chef.
In una cucina d’autore qual è il ruolo del sous chef?
Il sous chef è il legame che unisce lo chef e la brigata. E’ colui che trasforma un flash, una follia dello chef, in un piatto che tutta la brigata può replicare.
Come si ottiene un palato da chef?
Lavorando in cucina e assaggiando.
Con il passare degli anni la creatività si può perdere?
Si perde se non si lavora in cucina ogni giorno.
Nella tua cucina c’è tensione?
Può esserci, soprattutto quando il lavoro non è molto e l’attenzione diminuisce. In questo caso è necessario aumentare la pressione con un po’ di tensione.
Cosa ti infastidisce in cucina?
La mancanza di attenzione.
Il cibo per i romani è sinonimo di convivialità e gioia è così anche per te?
Sì, il cibo per me è gioia, ma è anche il mio lavoro e nonostante la fatica e le tensioni mi isola dal mondo e tutto il resto scompare.
Il cibo è anche ricordo, ti invito a fare un salto indietro nel tempo, qual è il sapore che custodisci nella tua memoria e che si lega alla tua famiglia di origine?
La mia è una grande famiglia, tre sorelle e un fratello e poi anche tanti zii e cugini. Siamo di origine umbra e quindi, ogni fine settimana, terminata le scuola, partivamo per andare al paese. Mio padre e mio zio erano cacciatori, quindi in cucina entravano beccacce, fagiani, tordi e cinghiali. Mia nonna faceva la pasta fatta in casa, il paté di fegato di coniglio con dentro i peperoni arrosto frullati. Mia nonna cucinava anche i piccioni arrosto, a noi bambini davano solo le coscette, che mangiavamo come chupa chups, sempre bruciate, perché mia nonna le dimenticava in forno. Anche mia madre la domenica cucinava i piatti della tradizione, i cannelloni e le lasagne e quando mio padre andava a caccia la parmigiana, che io inizialmente non mangiavo, non mi piaceva. Quindi i sapori che ricordo sono tanti.
Lasceresti Roma per andare a lavorare altrove?
Sto solo cominciando ad immaginarlo, ma io sono mammone. A me piace Roma, il suo traffico, le buche, anche tutte le sue cose brutte. Faccio colazione nello stesso bar da dieci anni, il parrucchiere è lo stesso da sempre.
James Joyce nel suo Ulisse ha scritto: <<Dio fece il cibo, il diavolo fece i cuochi>>. Oggi i cuochi, desiderosi del successo ad ogni costo, sono effettivamente creature diaboliche e senza scrupoli?
In questo lavoro per arrivare al traguardo, spesso dopo anni di duro lavoro, devi necessariamente rubare il posto a qualcuno, anche perché il mercato è saturo, i posti ambiti sono pochi, ma questo accade in tutte le professioni. C’è comunque tutta una generazione di giovani chef, nati negli anni 88 e 90, che potrebbero fare molto di più, se solo i “grandi”, che ormai sono “grandi”, si facessero un po’ da parte.
Tu hai insegnato in una prestigiosa scuola di cucina, come vedi i cuochi di domani?
Li vedo poco pazienti, troppo desiderosi di arrivare. Vogliono subito diventare chef, conquistare la Stella Michelin. Oggi tutti sanno che il lavoro in cucina è duro, che spesso ti vengono pagate metà delle ore lavorate, nonostante questo sono superficiali, non capiscono che per arrivare ci vuole tempo sia nel lavoro che negli avanzamenti di carriera.
Fabio Pecelli è l’erede di Andrea Fusco?
Io sono arrivato da Andrea che avevo diciassette anni e quella di allora era la vera cucina di Andrea Fusco, non quella di oggi. Per me era una sorpresa ogni volta che arrivavano prodotti come il frutto del drago, la carambola, il rabarbaro, ingredienti che in quegli anni pochissimi chef utilizzavano. La sua cucina era tonno e cocomero, oppure melone, mozzarella e spigola. Quella era la vera innovazione in cucina di Andrea Fusco, il Giuda Ballerino era un esperimento. Facevamo quaranta coperti fissi ogni sera, per trovare posto era necessario prenotare con due settimane di anticipo, lavoravamo in due in una cucina piccolissima. Non credo di essere il suo erede, la mia è una cucina più di pancia, più giocata, più smart nell’idea, con un numero di ingredienti limitato. Io utilizzo pochi prodotti italiani, questo da una parte mi imbriglia, ma dall’altra stimola la mia creatività.
Cosa ti manca oggi a causa del tuo lavoro così impegnativo?
La spensieratezza, questo è un lavoro che fa crescere presto.
Chi vive accanto a te?
Una quasi moglie e spero di arrivare presto al matrimonio. Ci conosciamo da quindici anni, la nostra storia è iniziata quando eravamo molto giovani. Lei mi ha sempre appoggiato, mi ha seguito in tutta la mia crescita professionale, da quando ero l’ultimo della cucina fino a quando lo stipendio ha cominciato ad aumentare e con lui anche le ore di lavoro, ma anche le ore in cui stavamo lontani l’uno dall’altra. Oggi abbiamo due bambini, lei è una grande madre e questo, per me, è importantissimo. Lei mi sostiene, è positiva, mi aspetta a casa e a livello emotivo è bello!
Quando sei felice cosa mangi?
Polpette al sugo.
Quando sei triste?
Non mangio.
Il colore che per te rappresenta il cibo?
Il marrone, che mi ricorda gli arrosti.
Una musica che per te rappresenta il cibo?
Non saprei, non ci ho mai pensato.
Un sogno nel cassetto?
Lavorare in un ristorante dove mi si lasci libero di creare e di cucinare senza l’assillo dei costi. Vorrei lavorare senza alcuna pressione.
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