Roma, rione Pigna, Grand Hotel de la Minerve, gioiello riservato a viaggiatori in cerca di storia, ma soprattutto di stile. Antonio Falco il suo Chef, profondo conoscitore della storia della cucina italiana.
Un artista, un creativo, un intagliatore. Ogni suo piatto un’esplosione di colori puri che catturano la luce. La porcellana si fa tela per rappresentare, non solo i sapori e i colori della Costiera, ma anche preparazioni antiche e complesse, con un raro esercizio di tecnica.
Cos’è per lei la cucina?
La cucina è arte, fantasia, stravaganza e un pizzico di follia.
Un grande Chef nasce o si fa?
Deve esserci la passione, che poi con il tempo si affina. Poi è importantissimo anche l’estro, un grande Chef è colui che apre il frigorifero e con tre ingredienti crea un piatto. Lo Chef deve essere un artista, uno showman del prodotto.
Ricorda ancora il primo piatto che ha cucinato?
Era il mio primo anno di scuola alberghiera, ricordo che preparai gli gnocchi di patate. Erano molto grandi e la mia famiglia li mangiò ugualmente nonostante non fossero buonissimi. Ancora oggi la battuta che mi fanno spesso è: “Ho ancora i tuoi gnocchi sullo stomaco”. A volte ripenso all’emozione di quel momento.
Quando pensa alla cucina di sua madre cosa le viene in mente?
Il profumo del ragù. Fino a due anni fa quando tornavo a casa mi accoglieva con le sue minestre di ceci, di fagioli, di lenticchie. Ora ha qualche problema di salute e quindi in cucina è entrata mia sorella. Amo una cucina semplice, fatta di sapori antichi che mi riportano a quando ero bambino. Ricordo che mia madre il 14 dicembre, giorno dell’onomastico di mio padre, entrava in cucina e iniziava la preparazione dei dolci natalizi per i suoi cinque figli. Dalle sue mani nascevano le pastiere, i taralli, i roccocò, i susimielli. Era una tradizione che si ripeteva ogni anno come l’allestimento del presepe.
Lei ha una vena artistica è intagliatore, che sensazioni le dà?
Quando intaglio entro in un mio mondo. Per le competizioni solitamente lavoro di notte, perché è quello il momento in cui ho l’ispirazione. Ricordo che quando vinsi la medaglia d’argento, al Culinary world cup, lavorai tutta la notte accanto al camino acceso, intagliando dei Provoloni del Monaco, che mi ero fatto preparare per l’occasione. L’intaglio richiede molto esercizio, esiste una tecnica di base, poi ognuno ha la sua grafia, come per la scrittura.
Lei ha lavorato accanto ad Alfonso Iaccarino, che periodo è stato?
Lo ricordo con grande piacere, Alfonso è esigente, severo e semplice. Quando sono arrivato da lui avevo lavorato per dieci anni in ristoranti tipici, ma è stato da quel momento che ho iniziato a fare il cuoco.
Arrigo Cipriani, patron dell’Harry’s Bar di Venezia, al giornalista Aldo Cazzullo ha detto: “La vera cucina italiana è nelle trattorie, gli Chef la stanno rovinando con il loro narcisismo, da me lavorano solo cuochi”, lei è d’accordo?
La tradizione della cucina italiana è custodita nelle trattorie, gli Chef sono l’innovazione e il futuro. Spesso non vengono compresi, ma è accaduto in passato anche a molti pittori, anche la cucina è arte.
Cosa le manca della sua Campania?
Della mia Terra mi mancano i colori, per ritrovarli cerco di metterli nei miei piatti. Inoltre cucino molto pesce e vivo al mare, questo mi aiuta a sentirla meno lontana.
Le piace la cucina romana?
Molto, e per approfondire la sua conoscenza, nella mia brigata, per 4 anni, ci sono stati cuochi romani.
Quella romana è una cucina che può apparire semplice e rustica, ma non è così, perché è ricca di storia e di fantasia e ha piatti che presuppongono una profonda conoscenza della tradizione della Città, ma soprattutto della materia prima. In ogni piatto però cerco di mettere un mio tocco che lo caratterizzi e così nella Carbonara c’è un leggero sentore di limone.
Qual è il piatto che i clienti stranieri amano di più?
La pasta all’Amatriciana, ormai conosciuta in tutto il mondo in seguito al terremoto.
Clienti italiani e clienti stranieri vi sono differenze?
Gli stranieri amano sperimentare, gli italiani invece sono più legati alla tradizione, ma sono più esigenti, perché hanno una maggiore conoscenza del cibo.
Conosce personalmente i suoi fornitori?
Non solo li conosco, ma li sento al telefono, per le ordinazioni, quasi quotidianamente. Cerco di utilizzare prodotti che non abbiano percorso migliaia di chilometri, seguo per quanto mi è possibile il ritmo delle stagioni, vado spesso personalmente al mercato, soprattutto quello del pesce. Da quando lavoro a Roma nei miei menù sono entrate specialità come la Favetta di Formia, il Maialino nero dei Monti Lepini, il Pecorino romano DOP. Poi certo vi sono anche eccellenze che arrivano anche da molto lontano, come quando devo intagliare e ho bisogno di colore, allora il melone arriva dal Giappone.
Mai come in questi ultimi anni il cibo si è evoluto e trasformato, se dovesse fare una previsione, come saranno gli Chef del futuro?
Si divideranno in due categorie rappresentate dai cuochi comuni e dagli chef dell’alta ristorazione, con una enorme distanza gli uni dagli altri.
Suo figlio sta studiando per diventare uno Chef, questo la rende felice?
Molto, anche se questo lavoro, in questi ultimi anni sta cambiando per colpa dei media e dei social. In futuro avremo un’abbondanza di Chef, quindi la professione avrà inevitabilmente meno valore. Lui vivrà un momento diverso dal mio.
Come nasce un suo menù?
I miei menù nascono in collaborazione con tutta la Brigata e soprattutto con il mio sous chef Giuseppe Fiorella. Decido un tema, si studia la tecnica, tutti esprimono la loro idea, poi insieme creiamo il piatto, che deve essere anche una loro creatura.
Lei cucina ancora?
Certo! Lo faccio ancora con molto piacere, i passaggi più difficili li eseguo in prima persona, ma non per mancanza di fiducia nei confronti della mia Brigata, ma per il tipo di formazione che ho ricevuto.
Spesso si dice che gli Chef sono collerici e scortesi con le brigate. Lei come si rapporta con i suoi collaboratori?
Io non sono così, ma posso esserlo se chi collabora con me non è attento e sottovaluta il lavoro. L’importante è che tutti siano concentrati, poi cerco di stemperare la tensione che inevitabilmente si crea, perché voglio che la mia Brigata lavori serenamente. Cerco di essere autorevole e non autoritario.
Controlla i piatti quando rientrano in cucina?
Sempre! Così posso assicurarmi se il piatto ha avuto successo. Quando non posso farlo io incarico una persona di mia fiducia che lo faccia per me. Poi ho un dialogo continuo con i camerieri.
Essere lo Chef della cucina di un grande albergo è molto impegnativo, chi è la donna che vive accanto ad Antonio Falco? Una casalinga con tanto amore per la casa, che fa la mamma a tempo pieno. Una donna speciale, quando penso a lei mi emoziono. Una donna paziente, perché il mio continuo desiderio di migliorarmi, di fare cose nuove, rende faticoso lo starmi accanto. Una donna che per seguirmi si è allontanata dalla sua famiglia e che, a causa del mio lavoro, si occupa quasi totalmente da sola dei nostri tre figli maschi, che hanno età diverse ed esigenze diverse. Ma si sa, i figli sono un dono in prestito e con il tempo sono destinati ad andare via.
Chi cucina a casa sua?
Cucina mia moglie, quando sono a casa stacco la spina, mi rilasso. Io a casa cucino solo a Natale.
Ricorda il suo primo giorno di lavoro qui Grand Hotel de la Minerve, che sensazione ha provato?
Un po’ di timore per la responsabilità dell’incarico. Non mi sono sentito arrivato, per me è stato un punto di partenza. Ricordo ancora il momento in cui arrivò l’email che annunciava che avremmo avuto ospite l’allora presidente della Comunità Europea Josè Barroso. Per superare l’emozione decisi di uscire, camminare e correre mi aiuta a raccogliere le idee e mi distende. Amo farlo al mare e qui in questa Roma bella e straordinaria, che da cinque anni mi ha accolto e che riesce a stupirmi ogni giorno.
Quali sono i colori che ha per lei il cibo?
Il cibo ha sfumature di giallo come i limoni che crescono quasi aggrappati alle rocce sulla Costiera Amalfitana. Ma è anche bianco come la mozzarella che affiora candida dall’acqua bollente
Vuole dirmi un brano musicale che per lei rappresenta il cibo?
Il buon cibo è una sinfonia che viene eseguita grazie ad un afflato perfetto tra i Maestri d’orchestra, il Direttore e il pubblico. Come una sinfonia non è un semplice insieme di note, così il piatto non è la semplice unione di ingredienti: è necessario il tocco creativo dello Chef, che può essere anche improvvisato al momento, come accade spesso nella mia cucina. Amo molto La Campanella, il famosissimo concerto di Niccolò Paganini, così effervescente e scintillante, un pezzo denso di virtuosismi che funzionano come colpi di scena teatrali, gli stessi che cerco di creare nei miei piatti.
Ha ancora un sogno nel cassetto?
A questo punto della mia carriera sono molto soddisfatto degli obbiettivi che ho raggiunto. Un mio sogno nel cassetto è forse quello di aprire un ristorante con i miei figli. Il secondogenito è al terzo anno di scuola alberghiera, il più grande sta per laurearsi in economia. Potrebbe collaborare anche mia moglie ed essere così, finalmente, più vicini. Ma questo accadrà tra qualche anno, quando i miei ragazzi saranno pronti a entrare nel mondo del lavoro.
Molto invitante e accattivante, vien voglia di provare le “Sinfonie” dello chef, godendo di questa vista meravigliosa!