
Anthony Genovese, chef giramondo affascinato dall’Oriente. Schivo, riservato con una erre moscia e un romantico accento francese che ammalia e incanta. Un’eleganza e un garbo rari tra chi maneggia pentole e padelle. Una cucina raffinata e di ricerca. Viaggi, più che percorsi gustativi sono i suoi menù. Un’organizzazione ferrea sia in sala che in cucina, forse anche grazie alla sapiente mano di un fido, il manager di sala Matteo Zappile. Il Covid 19 ferma i fotografi, ma non gli illustratori, ed io, di una di questi mi sono servita. Così lei l’ha visto, e così, anche se con un po’ di ritrosia, lui si è raccontato.
La morsa del virus sembra attenuarsi, le terapie intensive cominciano a respirare e allora io vorrei pensare al futuro, a un dopo, e voglio invitarla ad andare avanti nel tempo e a immaginare.
Il dopo sarà bellissimo e con tanta forza d’animo. Saremo i protagonisti di una nuova partenza de Il Pagliaccio, ci rimetteremo in gioco di nuovo per fare ancora meglio per i nostri ospiti. L’ambiente sarà più curato, creeremo ancora più dettagli per sorprendere anche il più scettico dei nostri nuovi ospiti.
Siamo a Roma, siamo al ristorante Il Pagliaccio, che ha appena riaperto le sue porte. In sala ci sono solo ospiti italiani, arrivano da ogni regione per la loro prima vacanza dopo l’epidemia. Non conoscono Il Pagliaccio, sanno solo che lei è Anthony Genovese e che sulla sua giacca sono ricamate due Stelle Michelin. Si presenti, presenti i suoi collaboratori, racconti agli ospiti qual è la sua cucina e quale esperienza gustativa stanno per vivere.
I nostri ospiti saranno tutti benvenuti. Parlerò loro con schiettezza e sensibilità, la mia cucina è il frutto delle mie esperienze, ma con profonde radici italiane. Amo prendere i ricordi più belli per portarli a Roma, così facendo gli ospiti potranno viaggiare con me in giro per il mondo restando al loro tavolo, una degustazione A/R, che li vedrà protagonisti. Un viaggio che faremo insieme attraversando paesi e continenti alla scoperta di sapori nuovi.

Il piatto parla per lo Chef che lo ha creato. Chi cucina si mostra nascondendosi nelle sue creazioni. Il piatto cucinato diviene una maschera. Il nome del suo ristorante vuole dire questo? Le maschere da indossare possono essere tante, la sua è quella del pagliaccio? Che significato ha?
Credo che questo significato si rifaccia più alle mie letture da ragazzo, a Pirandello, “Uno, nessuno e centomila”. I miei piatti rappresentano stati d’animo, non maschere. Stati d’animo che mi hanno accompagnato durante la mia carriera e durante i miei viaggi, le città e i profumi che ho vissuto e respirato. Il pagliaccio rappresenta un ricordo del mio papà, della mia infanzia. Il nome del ristorante è dato da un dipinto che presenzia nella parte centrale, mi ricorda che dietro ad ogni cosa gioiosa ci può anche e ci deve essere anche qualcosa di importante.
Genio è colui che va oltre i canoni e le regole, lei l’ha fatto molte volte, sia in cucina che in sala, si sente tale?
Assolutamente no, sono una persona con tanta curiosità e passione. Con tutto il mio team non ci accontentiamo mai, siamo sempre alla ricerca di novità e di poter esprimere le nostre idee. Cucina e sala, un matrimonio felice per raggiungere insieme un obiettivo comune, la felicità e la creazione di un’esperienza per i nostri ospiti.

Si dice che gli ingredienti vadano ascoltati, a lei, quando crea, che sensazioni danno?
La creazione di un piatto ha inizio da un pensiero, da un’idea che mi porta ad accostare gli ingredienti, legati talvolta alle mie esperienze, talvolta a nuove idee. La sensazione è di essere nel posto giusto al momento giusto, per questo credo molto nella stagionalità e nel rispetto di ogni singolo elemento.

Condire o còndere un piatto? Condire come aggiunta di un abbellimento decorativo e gustativo. Còndere come aggiunta di un fondamento essenziale identitario.
Credo che l’identità sia più forte e importante in un piatto, tutto deve ricondurre ad un’idea e ad un perfetto credo. Il Pagliaccio negli ultimi tre anni ha reso forte questo concetto, ha rimarcato un’identità di stile e di servizio, ha sottolineato una cucina, un’idea di vivere il ristorante e una cena.
Il peccato originale è un peccato di gola, non pensa che sia terribile e affascinante insieme?
Peccato di gola, un gran bel connubio, siamo tutti peccatori, io in primis. Forse ero peccatore già dall’infanzia, oggi continuo ad esserlo, perché di base sono curioso, mi piace assaggiare tutto, e sperimentare nuovi abbinamenti, concettuali prima e nel piatto dopo.

C’è un piatto, tra quelli che ha creato fino ad oggi, che può rappresentare la sua visione del mondo?
Non mi identifico in un solo piatto, ma nella mia idea di cucina. Non posso fermarmi a un solo stile, ma cerco, creo e condivido con il mio team quello che nella vita mi ha appassionato e quello che mi ha stupito. La mia visione del mondo è creare felicità, creare emozioni attraverso la nostra “esperienza”, che non si basa sul mangiare un piatto, ma sull’arrivare a Il Pagliaccio e lasciarsi andare, lasciarsi trasportare da sensazioni ed emozioni. Noi non siamo un ristorante che soddisfa un bisogno, ma vogliamo essere un ristorante che offre un’esperienza.

La tavola imbandita è come un foglio bianco dove è scritta una storia. Siamo in Francia, in cucina, è sera, Anthony Genovese è un bambino, è a casa con la sua famiglia. Chi è seduto intorno al quel tavolo? Cosa stanno mangiando? Chi ha cucinato? Mi racconti…
Hanno cucinato mio padre e mia madre. Alla nostra tavola sono seduti i parenti e mio fratello Jeanpierre. Il suono della musica italiana e il calore del camino ci avvolgono, la stanza si riempie di ricordi, sento l’odore della mia famiglia. In cucina, ai piatti regionali calabresi, si aggiungono ingredienti francesi. Mia nonna ha preparato i piatti della sua infanzia calabrese. L’atmosfera è familiare, casalinga, sicura da ogni pericolo esterno. Mi sento a casa, mi sento al sicuro. E’da quell’ambiente che credo sia nata la mia voglia di regalare emozioni.
Chi compone la brigata de Il Pagliaccio? Per farvi parte basta essere ottimi esecutori oppure è necessario avere anche estro?
La brigata è composta da sognatori e non basta essere ottimi esecutori. Ho sempre cercato spiriti liberi, emozionati da questo lavoro e pieni di passione. Si va oltre le ore, oltre il già fatto e il già creato. Tengo molto alla mia brigata, ma aldilà di quello che è il mero lavoro pratico, cerco una complicità intellettuale, un matrimonio di pensieri che ci porta poi a comporre il menù insieme.

Il cibo e la musica provocano delle vibrazioni intime e profonde, quanto è importante la musica nella sua vita? Ama ascoltarla quando crea e quando cucina? I pranzi e le cene a Il Pagliaccio sono accompagnate da un sottofondo musicale? Se sì, come viene scelto?
Amo la musica, mi rilassa, il sabato è il giorno in cui in cucina, durante la mise en place, si ascolta musica per allietare le preparazioni. In sala abbiamo creato, con il direttore Matteo Zappile, diverse playlist, che vengono scelte a seconda della serata, dei clienti, delle loro sensazioni e dei loro umori. Siamo in grado di percepire cosa accomuna i clienti e una volta fatto questo, cerchiamo la playlist giusta. Chi ha detto che la musica di sottofondo è sempre quella giusta?

La cucina è una forma di linguaggio. Spesso dietro un piatto si nasconde un ricordo o un messaggio che andrebbe narrato all’ospite. Che ruolo ha la narrazione nella sala de Il Pagliaccio?
I ragazzi in sala raccontano le mie idee, ma non ho mai voluto nulla di fisso, ognuno di loro può raccontarla a suo modo, può fare sua la mia identità e narrarla in modi diversi. La formazione in sala è molto importante, i continui briefing parlano anche di questo, raccontano di come approcciarsi ai clienti, di come gestire gli imprevisti e come mettere a proprio agio tutte le persone che scelgono di passare con noi delle ore della loro vita.

Gualtiero Marchesi, sempre alla ricerca dell’armonia, sosteneva che per poterla raggiungere spesso era meglio non far scegliere all’ospite, ma bisognava che fosse il maître a condurlo nella scelta. A Il Pagliaccio cosa accade?
Sostanzialmente la stessa cosa. Il ruolo di Matteo Zappile, il maître, è il ruolo di colui che deve prendere per mano gli ospiti e guidarli nella scelta del percorso migliore, talvolta accompagnandoli come una guida, talvolta, invece, prendendoli e poi lasciandoli andare da soli verso i Paesi che si prospettano piatto dopo piatto.

Oggi più che mai si pensa a mantenere un legame continuo con l’ospite, anche a distanza tramite i social, i blog, le newsletters. Lei lo fa? Riesce a donarsi completamente?
Ho il mio profilo personale instagram e facebook, mi piace poter rispondere direttamente a domande e curiosità dei nostri ospiti. Non amo essere una star, non lo sono, mi sento un cuoco. Ancora oggi sono dietro ai fornelli, assaggio tutto e cucino come i primi anni.

I cuochi sono i divi del momento. Immagino che lei sarà molto ricercato, sia per quanto riguarda le amicizie, che dal punto di vista sentimentale. Com’è Anthony Genovese quando lascia Il Pagliaccio, riservato e amante della solitudine oppure un gran viveur?
Riservato. Vivo la mia intimità e la mia vita privata con assoluta riservatezza, non sono mondano, presenzio solo ed esclusivamente dove devo essere. Mi piace essere semplice e spontaneo, ma posso esserlo solo dove non mi conoscono e dove posso scegliere liberamente cosa fare.
Lei, per il suo lavoro, vive buona parte della notte, ma poi, quando finalmente si addormenta, chi viene a salutarla in sogno?
I miei maestri di sempre, le persone a cui mi ispiro, artisti e scrittori che amo, che hanno scandito le ore dei miei viaggi e delle mie esperienze in giro per il mondo. Chi, come me, ha viaggiato tanto per lavoro si è trovato spesso solo e ha dovuto fare amicizia con tanti poeti e sognatori, attori e commedianti che hanno finito per prendere il posto degli amici. Durante i miei viaggi ho imparato ad andare d’accordo con me stesso, a sentirmi libero, di essere solo, di ragionare a voce alta. Ho imparato insomma, a convivere con le mie emozioni.

Qual è oggi l’orizzonte di Anthony Genovese?
Oggi è importante essere coerenti con la propria vita, con il proprio passato e con il futuro che verrà. Il mio orizzonte è quello di raggiungere un sogno, ma ancora meglio, lavorare al massimo, con passione, per raggiungerlo.
Le foto non firmate sono gentilmente offerte da AROMI.group
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