Scimmiottando il titolo di un vecchio libro di successo mi viene da dire: “Va dove ti porta il gusto”, e il gusto, inevitabilmente, mi ha portato nuovamente al Giuda Ballerino. Questa volta, dopo mille qui pro quo, per incontrare lo chef Andrea Fusco.
Un gusto che inseguo da sempre, fatto di capriole di sapore, dall’Osteria del Quadraro a qui, sulla bellissima terrazza del Bernini che guarda Roma, languida e meravigliosa.
Piatti fatti spesso di tanti ingredienti, un susseguirsi allegro e ritmato di tante sensazioni. Una cucina che osa e diverte senza mai strafare, trasforma ed esalta e soprattutto migliora con gli anni, come un buon vino.
Perché un giorno ha deciso di trascorrere la sua vita davanti a pentole fumanti?
La mia scelta l’ho fatta da ragazzino. Ero destinato a lavorare nell’azienda di famiglia e stavo studiando per farlo, anche se non mi piaceva molto. Così un giorno, preso il coraggio a due mani, avevo confessato a mio padre, in un momento in cui la professione del cuoco era considerata minore, di voler frequentare la scuola alberghiera e lui, un po’ a malincuore, aveva acconsentito. In realtà già da bambino giocavo in cucina con mia madre che ogni domenica tirava la pasta all’uovo, e che ha sempre vissuto la cucina da contadina. Tutto veniva fatto in casa, quando c’era da cucinare il coniglio si andava a prenderlo dai parenti a Velletri, io lo tenevo per le orecchie e insieme gli toglievamo la pelle. Lo stesso accadeva con il pollo anche se mi dava fastidio l’odore quando mia madre lo immergeva nell’acqua bollente. Verso i dieci anni mi fece vedere come si uccideva il maiale, mi impressionai moltissimo a vederlo agganciato al soffitto che piangeva come un bambino, vederlo sgozzare, mettere il secchio sotto e raccogliere il sangue come fosse oro colato.
Il giorno dopo però ero con tutti a preparare le salsicce. Allora, vivendo a Roma, quei viaggi in campagna, spostandomi dalla città al paesino un po’ arretrato, li vivevo come una costrizione, oggi mi rendo conto di aver introiettato costumi, profumi e sensazioni che non hanno prezzo.
Le piace più creare o cucinare e come nasce un piatto?
Mi piace più cucinare, sono ancora uno “chef da stufa”. Un piatto può nascere in tanti modi, a volte mentre lavoro, resto dell’idea che le mani fanno tutto; altre volte mentre mangio o mentre sto facendo una pausa e mi viene l’idea di abbinare un prodotto con un altro. Oppure come ora, un piccolo produttore di Montoro mi ha regalato delle radici, tanti piccoli sapori insoliti, la radice di finocchio, ad esempio, non l’avevo mai assaggiata, rinfrescante e croccante proprio come il finocchio, ma più carnosa e terrosa, quasi una carota che ha il sapore del finocchio, così è divertente, ci vuole un attimo, l’idea arriva e il gioco e fatto…

Risotto con essenza di pino e lumache croccanti
Qual è il piatto che ha creato che ama di più indipendentemente dal gradimento che ha avuto?
Non so dirlo, forse quello che farò domani. Non ho un piatto simbolo che non toglierò mai, inoltre ho la sfortuna e il piacere di dimenticare i miei piatti, ci sono invece ingredienti che amo di più, ma sono, anch’essi, passeggeri.
Qual è l’elemento più importante in un piatto che non sia il suo?
Vado quasi sempre a mangiare fuori. Quando apro un menù cerco di capire cosa vuol dire lo Chef, se c’è una filosofia vado a ricercarla, se non la percepisco la chiedo. Se invece il menù è semplice e basico non approfondisco. Scelgo piatti in cui vi sono prodotti del territorio, non sono territorialista, infatti utilizzo prodotti che arrivano da tutte le parti del mondo, però se nel menù ce n’è qualche traccia la voglio assaggiare per capire come lo Chef li interpreta e come percepisce il territorio in cui vive.
Quanto è importante la tradizione nella sua cucina?
E’ radicale.
Quali regole adotta nella sua cucina?
Una marea. Io sono molto classico, non mi piacciono le divise colorate, voglio la toque, non voglio orologi, gioielli e cellulari, non voglio che si fumi durante il servizio, perché quando si assaggia i sapori sono falsati. Insomma ci sono tante piccole regole, che do per scontate.
Come difficilmente accade, lei ha il nome del pasticcere in carta, nel suo caso, ancora per qualche giorno, perché presto andrà via, Andrea Riva Moscara, come mai questa scelta?
Sì è vero raramente accade, ma credo che se il dolce è stato creato dal pasticcere è giusto che appaia il suo nome, anche se poi, per lui, è una grande responsabilità. Io Andrea l’ho reputato subito capace di comporre la carta dei dolci, ma d’altronde, se fai parte della mia squadra, sei bravo, anche se poi sono avaro di complimenti e spesso Andrea me lo ha fatto notare.
Perché un ospite dovrebbe venire al Giuda Ballerino?
Per il luogo, sono pochi i locali così belli, ma anche perché c’è una cucina che ha qualcosa da raccontare. Una cucina di ricerca, ma non estrema, che guarda il territorio, ma gli fa l’occhiolino e un po’ la prende in giro. Dove il piatto ha sempre un lato ludico, piacevole ed estetico e non solo di riempimento. Dove le materie prime sono sempre le migliori. I motivi, quindi, non sono pochi.
La notorietà condiziona o addirittura incatena la sua creatività?
Oggi quando creo penso all’ospite più di un tempo, ma perché con gli anni cresce la saggezza, se vogliamo chiamarla saggezza, ma non mi sento incatenato.
Oggi si sente più chef o uomo d’affari?
Mi sento più uno Chef, anche se poi devo far quadrare i conti altrimenti il locale chiude, ma non cerco il profitto a ogni costo.
La cucina è arte o scienza?
E’ più arte che scienza. Anche se arte è una parola grande, forse troppo grande. In realtà noi siamo artigiani, e come gli artigiani trasformiamo la materia.
Ha mai pensato di scrivere un libro di cucina?
Me lo chiedono spesso, anche i clienti, ma sono ancora piccolo, forse un giorno…
Chi è il più bravo tra gli Chef creativi romani?
Forse Roy Caceres.
Nella gastronomia romana che posto pensa di occupare?
Credo di essere tra i migliori cinque. Ho aperto il mio primo ristorante quasi venti anni fa, proponendo una cucina definita creativa ed estrema, sarebbe bello che a Roma, oggi, vi fossero cento colleghi come me, invece se ne contano veramente pochi.
Si sente arrivato?
No, assolutamente no!
Ha ancora un sogno da realizzare?
Quello che ho nella mia vita mi basta.
Rimpianti?
Lavorativi no. Forse di affetti trascurati, ma non mia moglie e mio figlio. I miei genitori, con questo lavoro madre e padre li vedo veramente poco, e mamma contadina mi vorrebbe accanto ogni giorno.
Mangia mai al fast food?
Sì, forse una volta l’anno, ho un bambino di sette anni al quale non posso dire di no.
Cosa mangia quando è felice?
Più che mangiare amo bere, e lo faccio con mia moglie che è una sommelière, la scelta del vino da stappare è sempre il frutto di una lunghissima discussione. Solitamente quando sono felice mangio uno spaghetto al pomodoro.
Invece cosa mangia quando è triste?
Un formaggio mi fa felice, ma forse perché non devo trasformare nulla io. E’ un prodotto eccezionale, un giorno, chissà, con un pizzico di coraggio, chiuderò la pasticceria per far terminare il pasto con il formaggio senza il dolce.
Vino e cibo, un legame alchemico indissolubile, è così?
Per forza, troppo bello mangiare e bere.

Patata viterbese con spuma alla vaniglia,tartufo nero e brodo di gallina
Cucina, sempre o ovunque cucina, sarà sempre così negli anni a venire?
No, non credo…
Si suole dire che la stella Michelin faccia entrare nell’Olimpo della ristorazione, quando la si perde che accade?
Io sono convinto che la riprenderemo tranquillamente, ci stiamo lavorando, e sappiamo anche perché l’abbiamo persa, e già questa non è cosa da poco.
Con la proprietà dell’albergo, perché questo non è solo il mio locale, l’intento era quello di creare un ristorante gourmet, ma senza fare, almeno inizialmente, grandi investimenti a livello economico, ammodernamenti su sala e cucina. Inoltre senza pensare che in un ristorante non basta lo Chef, sono necessarie altre professionalità, occorre una squadra di cucina e del personale di sala, se la sala non va ne risente subito anche la cucina. Io, sbagliando, per dimostrare che si poteva fare tanto ho cercato di superare quella che era la meta prefissata, ma avendo a disposizione una struttura non adatta e permettendo ad alcuni clienti comportamenti non consoni a un ristorante di questo tipo, e per questo la Michelin ci ha penalizzati.
Il Giuda Ballerino ha aperto i battenti venerdì 17 aprile di due anni fa, la invito a ricordare quel giorno, un attimo prima dell’arrivo degli ospiti, lei ha guardato prima questa sala bellissima e poi Roma ai suoi piedi, cosa ha provato?
Ho detto, questo è sicuramente un posto bello dove posso dimostrare chi sono, per far sapere al mondo quello che sto facendo. Qui siamo al centro di Roma e con una vista così…
Lei ha sposato Mariana Alverdi, nota sommelière argentina, c’è un piatto che le ricorda un momento particolare della vostra storia?
Solitamente non siamo mai d’accordo su un piatto, ma ricordo che eravamo in Spagna, diciotto anni fa, vicino San Sebastiàn, il ristorante oggi non c’è più, mangiammo una pancetta brasata accompagnata da un latte di mandorle fresche, rimanemmo entrambi raggelati per quanto era buono, e poi era un momento particolare…
Com’è la donna che vive accanto allo chef Andrea Fusco?
Sono stato fortunato a trovare Mariana, è stata una scommessa bella. Inizialmente è stata molto dura, noi abbiamo lavorato insieme dal 1998 al 2015, tanti, tanti anni, uno accanto all’altra, io responsabile di cucina lei di sala, e così, spesso, si portavano a casa i problemi.
Mariana è una donna forte e determinata che sul lavoro non accetta compromessi. Siamo maturati in maniera diversa, io con il passare degli anni sono diventato più morbido, lei più intransigente. Mi dispiace che oggi non sia qui con me, io la vorrei, tra qualche anno, quando Lorenzo sarà più grande, torneremo a lavorare insieme.
Suo figlio Lorenzo è ancora molto piccolo, ma le accade mai di pensarlo ormai grande e Chef che lavora accanto a lei?
No, non mi accade, se lui lo vorrà ne sarò felice, ma non è il mio sogno.
Lascia un commento