Ladispoli è in festa. Come ogni anno, dal lontano 1950 festeggia il “dono del sole”, il Carciofo Romanesco.
Ladispoli, cittadina laziale di terra e di mare, dal clima fresco e piovoso, raccoglie in questo periodo, ancora esclusivamente a mano, per mandarli nei mercati di tutta Europa, i suoi carciofi, teneri, delicati, carnosi, senza spine e splendidi nei loro colori.
Il carciofo dal punto di vista botanico è un’infiorescenza a capolino della famiglia delle Asteraceae.
I carciofi godono la fama di essere protettori del fegato, anche se pochi sanno che la maggior parte dei principi nutritivi sono contenuti nelle foglie che non vengono mangiate. Chi non ricorda la famosa pubblicità di un coraggioso Ernesto Calindri che, seduto ad un tavolino, in mezzo al traffico, beveva un amaro al carciofo contro “il logorio della vita moderna”, proprio per il suo potere antiossidante.
I carciofi sono una miniera di fibra e minerali soprattutto calcio, fosforo e potassio, riducono il colesterolo nel sangue e rafforzano l’azione cardiaca. Già in Egitto, nel 222 a. C., Tolomeo III Evergete aveva ordinato che i soldati mangiassero carciofi perché si riteneva che questi li rendessero più forti in battaglia.
Contengono la cinarina, una sostanza che è in grado di modificare le papille gustative e la percezione del gusto degli alimenti, infatti anche l’acqua sarà più dolce se bevuta dopo aver gustato un carciofo.
In Italia è un ortaggio molto amato, infatti 52.000 ettari sono coltivati a carciofo, ma il Carciofo Romanesco del Lazio, nelle cultivar Castellamare e Campagnano è stato il primo ad essere tutelato dal marchio I.G.P..
Si riconosce dal simbolo grafico di forma ovale con al centro l’immagine del carciofo e viene prodotto nei comuni delle province di Roma, Latina e Viterbo, inoltre è uno dei 100 prodotti che rappresenteranno il Lazio all’Expo di Milano.
La coltivazione del carciofo nelle campagne di Ladispoli è iniziata nel 1930. Dopo la 2° Guerra Mondiale la Pro-Loco cittadina pensò di organizzare la Sagra del Carciofo per sostenere la nascente cinaricoltura, e da allora, ogni anno, nel periodo della raccolta, a seconda della maturazione dei carciofi, quindi senza una data fissa, si organizzano manifestazioni e degustazioni.
Quest’anno l’evento si terrà il 10, 11 e 12 Aprile, ma già dal 30 Marzo, i ristoranti del luogo offrono ai loro clienti carciofi cucinati in mille modi.
La mattina di domenica 12 Aprile sarà possibile incontrare i produttori, che presenteranno le loro originali sculture di carciofi, poi nel pomeriggio Chef ed esperti con ricette e consigli dimostreranno “come il nostro eroe finisce in padella”. Dopo aver gustato i fiori della terra, la giornata si concluderà guardando il mare con il bagliore colorato dei fuochi d’artificio.
Il carciofo Kinara per i Greci, Cynara per i Romani, che ne consacrarono la pianta a Venere, fu portato in Europa dagli Arabi. Nella mitologia è l’incarnazione di Cynara, una ninfa amata da Zeus. Si narra che la fanciulla fosse talmente bella che il dio se ne invaghì. Ella era molto bella ma anche molto volubile e capricciosa e Zeus, un giorno, stanco delle sue ritrosie, per punizione la trasformò in carciofo. Verde come i suoi occhi, dolce come il suo cuore che lo aveva fatto tanto innamorare, e spinoso come le pene d’amore che la bella Cynara gli aveva fatto patire.
Il Carciofo Romanesco è molto pregiato, il suo diametro non può essere inferiore a 10 cm ed inoltre viene allevato un carduccio per pianta e i carducci superflui vengono eliminati manualmente.
Il carciofo fu sempre tanto amato da essere raffigurato anche nelle tombe etrusche della necropoli di Tarquinia. Solo Ludovico Ariosto non lo amava, tanto da scrivere “Durezza, spine, molto più vi trovi che bontade”. Mentre invece, Caterina dei Medici rischiò di morire di indigestione per averne mangiati troppi.
Marco Gavio Apicio nel De re coquinaria racconta che i Romani amavano mangiare i cuori di cynara lessati in acqua e vino.
I “duri dal cuore tenero” si servono prevalentemente cotti. Solitamente si cucinano “alla romana” con abbondante olio, pangrattato, prezzemolo, aglio e pepe. Il cuore crudo è ottimo in pinzimonio o tagliato in un’insalata mista. I carciofi possono essere un antipasto, oppure si possono utilizzare nel sugo dei primi piatti, oppure possono accompagnare pesci delicati, carni arrostite e a Roma l’abbacchio.
Il popolo romano ha infatti una predilezione per il carciofo che annuncia l’arrivo della primavera. Gli Ebrei romani mangiavano i carciofi al termine del Kippur, la festa dell’espiazione, del raccoglimento, della preghiera, quindi del digiuno totale e per questo furono chiamati “alla giudia” e dal popolo ebraico “fritti a rosa”. Si racconta che fosse in uso nelle famiglie ebree, mantenere in un grande caldaio di rame, di generazione in generazione, lo stesso olio, sempre aggiungendone del fresco, per friggervi i carciofi. Probabilmente era solo il caldaio di rame ad essere sempre lo stesso, ancora oggi, nei ristoranti del ghetto a Portico d’Ottavia si possono mangiare delle Mammole, anche così si chiamano i Carciofi romaneschi, fritte alla perfezione.
Quando il carciofo è troppo maturo, ormai vicino alla fioritura, le setole bianche si allungano e allora di dice che ha il pelo e se ne mangia solo il fondo ripieno di formaggio fuso. Buonissima è anche la crema di carciofi da servire accompagnata dai crostini di pane.
Ma come riconoscere un buon Carciofo Romanesco del Lazio? Semplicissimo, basta prenderlo tra le dita, stringere, se non si appiattisce e al contrario fa resistenza, allora è pronto per essere gustato.
Le foto della Sagra sono gentilmente offerte dal Dottor Gabriele Desiderio
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