Oggi, 20 gennaio 2016, il Calendario del Cibo Italiano festeggia la Pasta alla carbonara, Ambasciatrice della ricetta, Tamara Cinciripini.
L’origine della ricetta è incerta, molte regioni se ne contendono i natali ed io che sono romana, che la mangio da sempre, che la vedo mangiare ai turisti seduti ai tavolini all’aperto quando passeggio per la mia città, mi piace pensarla mia, nostra, romana insomma.
La pasta alla carbonara nasce a Roma nel 1944 dalla fantasia degli osti romani, che, per accontentare le richieste del militari americani che a pranzo ordinavano pancetta, uova e noodles, gli spaghetti cinesi, in sostituzione gli servivano, in uno stesso piatto, guanciale, uova fritte e spaghetti italiani.
Gli americani mescolavano, mescolavano, creando una “specie di carbonara”.
Ma cosa si mangiava a Roma in quegli anni poco prima e poco dopo la nascita della Pasta alla carbonara?
L’Italia era in guerra, una guerra che doveva durare pochi mesi ed invece durò cinque lunghi anni e, come si usa dire era molto difficile mettere insieme il pranzo con la cena.
Petronilla, al secolo Amalia Moretti Foggia, dalle pagine della Domenica del Corriere e dai microfoni dell’Ente Radiofonico consigliava alle massaie ricette per cucinare piatti semplici con i pochi ingredienti che si riuscivano a trovare.
Miriam Maffai, molti anni dopo a guerra finita nel suo libro “Pane Nero” racconterà la fame di Roma, i cento grammi di pane fatto di segale, ceci e segatura.
Si facevano lunghe file per acquistare broccoli, cipolle e zucche, tutto era sempre insufficiente, le tessere annonarie permettevano di acquistare misere quantità. Era nato allora il Mercato Nero o meglio la “Borza nera”, come si chiamava a Roma, anche a costo della vita.
L’illustratore Gino Boccasile, su di un manifesto dell’epoca scriveva: “La donna italiana colle sue rinunce e con i suoi sacrifici, marcia insieme ai combattenti” Era proprio così.
Le donne avevano, ogni giorno, un unico grande pensiero che non le abbandonava mai, cosa preparare da mangiare per la famiglia.
Gli ortaggi venivano utilizzati dalle radici alle foglie. Le radici degli spinaci e due centimetri dei loro gambi venivano cotte in padella con un po’ di olio, aglio e cipolla e venivano servite come contorno.
Le bucce delle rape, delle fave, e dei piselli finivano la loro vita nelle minestre. Grande uso si faceva delle patate che costavano poco e si trovavano facilmente, oltre che come purè venivano utilizzate nelle polpette, e negli sformati. Le loro bucce crude venivano tagliate a listarelle sottili e venivano cotte insieme alle altre verdure, viceversa le bucce cotte venivano fritte dopo essere state tagliate come fossero capellini e avvolte a nido.
Gli avanzi del pane erano cosa preziosa, accompagnavano le zuppe ma erano anche i “biscotti” della prima colazione. Le briciole sulla tovaglia venivano raccolte per diventare panegrattugiato.
In casa si faceva anche un particolare formaggio. Si univano duecento grammi di latte e un chilogrammo di purè di patate, si mescolavano e il composto ottenuto si faceva riposare per quattro giorni. Poi si lavorava nuovamente e si metteva a stagionare in un cestino per due mesi. Non ho trovato notizie circa il suo sapore…
Si utilizzavano anche le ossa del coniglio e del pollo che restavano nei piatti per farne dei brodi. Venivano cotte nuovamente con acqua, carota, cipolla, sedano, pomodoro e qualche chiodo di garofano e con le croste di formaggio avanzate.
Il grasso degli arrosti veniva raccolto e conservato in barattoli di vetro e utilizzato come condimento per altre preparazioni. Il grasso crudo di scarto delle carni veniva fuso, raccolto in panetti e utilizzato come burro.
Lo zucchero era merce preziosa, quindi al suo posto spesso si utilizzavano le carrube, il cibo dei cavalli, perché molto dolci. Venivano fatte macerare in acqua per una settimana, si aggiungeva poi del latte crudo e ancora acqua. Il composto ottenuto si faceva bollire per cinque minuti, poi lo si passava al setaccio ed era pronto per essere conservato.
Il sale era scomparso con l’arrivo della guerra sul territorio italiano. Impossibile farlo partire dalle saline di Puglia, Sardegna, Sicilia e Romagna. Inizialmente le donne romane andavano ad Ostia, Torvaianica ed Anzio, e tornavano con il loro carico di acqua di mare che facevano evaporare al sole in tinozze. Poi, forse stremate, avevano cominciato ad acquistare a caro prezzo da alcuni “grossisti specializzati”, l’acqua di mare utilizzandola direttamente per cuocere la pasta. Pare che il gusto della pasta fosse amarognolo.
Mancava anche il tabacco e con lui le sigarette, ma quella è un’altra storia…
Nelle campagne romane si andava a cicoria, ma anche a papaveri, non per i semi dei fiori, ma per la pianta.
Ovunque fiorivano orti, anche sui balconi, sui davanzali delle finestre.
I convogli dei viveri diretti a Roma venivano mitragliati. La città era allo stremo, In uno dei momenti più bui, un diplomatico inglese presso la Città del Vaticano aveva scritto al suo Governo chiedendo pietà per la città.
La secca risposta di Churchill era stata: << Roma deve patire la fame fino a quando non sarà liberata>>.
Allora le parrocchie, le sagrestie, i collegi di suore e di preti e perfino i conventi di clausura avevano acceso i loro fornelli a carbone, socchiuso i grandi portoni distribuendo ad una moltitudine grata ed affamata grandi tazze di alluminio colme di calde e buone minestre. Minestre rossicce per la conserva di pomodoro, con pochi canolicchi, qualche fagiolo, tante patate e i broccoli romani.
I camion della Città del Vaticano, con i loro tetti bianchi e gialli come segno di riconoscimento per fermare i colpi della mitraglieria, avevano cominciato a correre per la città, distribuendo farina e quanto arrivava nel circuito ecclesiastico.
Ma Roma aveva fame, tanta fame, neppure i gatti, “i gatti de Roma ce staveno più…”
Mancava anche l’acqua, la gente si metteva in fila davanti alle fontanelle stradali dell’Acqua Marcia che zampillavano solo per poche ore al giorno. Il gas inizialmente arrivava ad intermittenza poi con il passare del tempo era sparito del tutto e così piano piano erano scomparsi gli alberi dai viali, le panchine dai giardini pubblici, le staccionate da Villa Borghese.
L’importazione del caffè era stata bloccata nel 1935 quando l’Assemblea della Società delle Nazioni a Ginevra aveva stabilito delle sanzioni economiche contro l’Italia che aveva iniziato una campagna per la conquista dell’Abissinia. Pur di bere un caffè si tostava di tutto: ceci, cicerchie, i vinaccioli dell’uva e i chicchi di grano e forse, perché erano bevande imbevibili erano chiamate caffù .
I pochi “ricchi” rimasti potevano acquistare ad un prezzo esorbitante, in una latteria di via dei Pastini, un vero caffellatte in bottiglia.
Se, come sostengono i napoletani, il caffè deve essere nero come la notte, ardente come l’inferno, dolce come l’amore sarebbero dovuti passare molti anni prima che ai romani fosse concesso di poter gustare nuovamente un buon caffè.
Anche quello portato dagli americani era “cattivo”perché poco tostato.
Livio Apolloni in “Cronache d’altri tempi” sostiene che “un popolo appecoronato da orge di ceci abbrustoliti, di cicoria, di miscele misteriose con schizzi di anice ed effluvi di decotti di more ed empiastri di liquerizia, non può sostenere a lungo un conflitto. Gli italiani si erano trasformati in leoni, quando erano finalmente arrivati gli americani e forti odori di caffè in polvere si sprigionavano dalle scatole di latta. Gli alleati erano vestiti color caffè e latte e alcuni avevano perfino la pelle color caffè abbrustolito. Come per magia la gente si era risvegliata, eccitatissima, con la caffeina nel sangue e nel cervello”.
I “liberatori” erano arrivati a Roma il 3 giugno del 1944, e per tre soli giorni i romani avevano mangiato pane bianco. Per Luigi Ceccarelli era” il pane degli alleati, splendente, bianco, soffice come l’ovatta ma che non sa di niente”. Trascorsi tre giorni, terminata forse la farina, i romani erano tornati al pane nero tesserato.
Gli americani avevano portato in Italia i chewing gum, le sigarette, la cioccolata, tanta polvere di uovo e di latte, carote liofilizzate, montagne di scatolette meat and vegetable. Stranissimi fagioli neri disidratati e liofilizzati che dovevano rimanere almeno un giorno e una notte in ammollo nell’acqua e bicarbonato prima di essere cucinati e poi la margarina, gialla, salata.
I romani, guardandoli passare vittoriosi e allegri sui loro carri armati avevano pensato che la guerra era finita e con lei la fame, ma purtroppo, non sarebbe stato proprio così…
Un documento molto interessante; ho dato solo un’occhiata, vengo poi a leggere con calma.
Certo, quando vuoi..
Bellissimo il tuo racconto, le foto d’epoca fanno sempre effetto. Complimenti
Grazie Erica…
Grazie Erica, è vero, mai come in questo caso le foto sono importanti per rendere veritiero ciò che oggi sembra impossibile.
Gabriella, mia mamma nel ’44 aveva 22 anni e viveva a Roma. Ti giuro, che leggendo il tuo post, mi sono realmente commossa e tra quelle fotografie, ho cercato la figura di mia mamma. Tutto quello che hai scritto, è lo stesso racconto che lei mi narrava, la fame, la fila per prendere un pezzo di pane, la farina con i vermi, comprata alla borsa nera e cucinata su un fornellino, cercando di tappare con gli stracci, le fessure della porta, per non far sentire agli altri, cosa stesse cucinando! Il giorno che sono arrivati gli americani, lei era in bicicletta, si è trovata davanti un mostro di carrarmato e dalla paura, è caduta…non è più risalita in sella!! Grazie mille per questo post meraviglioso
Aurelia
Grazie Aurelia ! Una mamma romana la tua …E’ stato un viaggio nel tempo che ha toccato anche il mio cuore. Poi anche il racconto di mia madre che aveva trovato un pezzetto di burro, e dopo aver impastato e cotto per una notte intera era riuscita a spedire i suoi grissini, al fronte, al fratello, che poi con gli altri soldati li aveva mangiati.
Era trentina, ma faceva la tata a dei bimbi… aveva girato mezza italia, durante la guerra, prima Palermo, poi Roma e quando è finito tutto, si sono trasferiti a Pisa.
Leggere il tuo commento è stato il più bel regalo di questa giornata…di nuovo grazie mille!
… sempre interessante, grazie Gabriella
Grazie Ombretta e un saluto a Giorgio.
accidenti che foto e che racconto! Mi ricorda quello che mi diceva mamma, le foto del suo album..bello bello
Grazie Sabrina, è vero le cose più belle sono quelle foto sbiadite.
Hai scritto un post bellissimo Gabriella…anch’io come Aurelia mi sono commossa perché mi sono ricordata di mia mamma che ricordava il primo Natale di guerra e lei di anni ne aveva 9. La zia con la quale lei viveva aveva trovato non si sa neanche dove un piccolo pezzo di carne con la cotenna ed è riuscita a trasformarlo un un arrosto (ma era piccolissimo) che a mia mamma piaceva tantissimo con quella crosticina croccante e lei era felice ma la zia ha cenato piangendo…
Grazie Marina…queste ricerche sono belle perchè piano piano affiorano anche ricordi e racconti personali, a volte un po’ tristi ma che scaldano il cuore.
Gabriella…
credo che questo post toccherà il cuore di tutti. Di chi c’era e di chi non c’era. E che ha forse ancora più bisogno di testimonianze come questa.
Straordinario lavoro. Bravissima!
Grazie Alessandra. E’ stato per me un triste ma bellissimo viaggio nel tempo.
Grazie Gabriella, uno spaccato di storia e di vita che chi come me non ha vissuto, attraverso il tuo racconto ha il piacere di conoscere. Un abbraccio. Fabiola
Grazie Fabiola a presto…
Grazie per questa tua intensa ricerca, ho rivissuto anche io i racconti della mia mamma e della mia nonna riguardo gli stenti della guerra, da non augurare nessuno. Un peccato, forse, che i nostri giovani non ne colgano l’essenza e l’importanza, vista anche la distanza storica, e inconsciamente non capiscano la grande fortuna che hanno ad esser nati nei privilegi.
Grazie Cinzia, a loro sembra tutto molto lontano e quasi impossibile, ma poi non lo è così tanto…
Bellissimo e toccante racconto della vita difficile durante la guerra e della nascita di questo mitico piatto, che adoro! Complimenti!
Ciao Francesca, lo vedi, diventi piano piano sempre più romana ! Scherzo … lo sai !
Ciao Gabriella, che bellissimo post, quanti ricordi, mio padre , i miei nonni ci raccontavano tanti di questi racconti, quanta fame , quanta miseria , quanta disperazione, e anche qualche sorriso, come quando dopo tanto digiuno mia nonna era riuscita a fare una teglia di fagioli al pomodoro con le cotenne e mentre erano a pranzo suonano le sirene e tutti nei rifugi, mio padre bimbetto di 8 anni prima di scappare agguantò la teglia per portarsela dietro nel rifugio……ma questi racconti sono belli e vanno tramandati… perché ne noi ne i nostri figli e nipoti possano mai scordare
Ciao Sonia, è bellissimo perchè con i vostri commenti la storia di quegli anni si arricchisce. Grazie mi ha fatto piacere leggerti.
E sempre utile ricordare che cosa significa “guerra”!!
Si è vero Marina sempre …
Bellissimo post! Mi sembra sentir raccontare le mie nonne, mia mamma e le zie. Tenete poi presente che gli alleati
arrivarono a Firenze nel agosto del 44 ma li si fermarono. Bologna fu liberata il 21 aprile 44 –
Mio padre raccontava che il brodo del natale del 44 fu fatto con un merlo e due passerotti che aveva preso lui con la fionda.
Grazie Silvia, ho scoperto che tutti abbiamo un ricordo di quei giorni che ci è stato tramandato e basta a volte solo una vecchia foto perchè riaffiori.
un post bellissimo, molto sentito e molto vero.
mia mamma abitava in emilia, in campagna, e i suoi avevano un’osteria, quindi la fame non l’ha mai patita, ma mi racconta sempre che venivano sempre a trovarli i parenti di città, da modena, bologna, parma, con tutta la difficoltà degli spostamenti, e il nonno dava loro cibo, di ogni tipo: pane, farina, zucchero, ma anche conigli, polli, qualsiasi cosa. perché in città mancava tutto.
interessantissimo. grazie!
Grazie… è vero in quei giorni erano fortunati coloro che vivevano fuori città.
Ciao cara ! Hai fatto un articolo che è un capolavoro! Ho letto con grande interesse e ho ritrovato nel tuo racconto, molti aneddoti che mi venivano raccontati da mio nonno, fatto prigioniero dai tedeschi proprio nella seconda guerra mondiale! Grazie mille…davvero ! Un abbaccio!
Ciao Tamara grazie ! La prigionia, credo abbia segnato in maniera indelebile la vita di coloro che l’hanno subita.
Ahimè rivedo in questo post tante cose che mi raccontava mia nonna, legate agli anni di guerra e a Genova, sempre sotto tiro da parte degli inglesi a causa dei cantieri navali
La fame era fame ovunque, con la fortuna però per i Liguri di avere un retroterra impervio nel quale si poteva ancora coltivare qualcosa senza essere scoperti e saccheggiati, cosa che a Roma non era concessa.
Ma chi legge il mio romanzo La guerra di Gianni si rende conto che a situazione era già così nel 42 e un po’ per tutti.
Nella caserma dove mio padre faceva addestramento -a Padova- in molti mesi non videro mai l’olio (l’insalata era condita con sale grosso e aceto ed accompagnava un pezzo poco lo di carne indefinita, è un giorno che un grosso tipo cadde nella marmitta della minestra lo estrassero cotto davanti a tutti e distribuirono ugualmente la zuppa)
Il rancio era scarso, scarsissimo. E quelli erano i soldati che avrebbero dovuto difendere il paese e morire per esso.
Da li’ in avanti tutto andava a rotoli.
Davvero triste ciò che hai raccontato, ma è un bellissimo documento di storia.
Complimenti .
Grazie Silvia.Sarebbe interessante per approfondire la conoscenza facendo una ricerca sulle lettere e sui racconti degli uomini al fronte.